venerdì 23 settembre 2016

Carbonia. Cent'anni di solitudine.



Carbonia. Un tempo speranza per moltitudini indefinite di persone, giunte da tutte le Regioni d’Italia per trovare un lavoro, forse lusingate dalla propaganda totalizzante del regime, celebrante ossessivamente la propria potenza sociale ed edificatrice. In tanti furono collocati nelle innumerevoli miniere disseminate nel territorio, in cui trovarono sostentamento per le proprie famiglie ma talvolta anche la malattia, che giungeva definitiva su deboli corpi snervati dalla fatica. Numerosi libri, disparate ricerche, centinaia di pagine hanno parlato e ci parlano delle vicissitudini, del dolore, della storia e del coraggio di questi indomiti operai, uomini sacrificati sull’altare pagano del salario in una Repubblica fondata sinistramente sul lavoro. Eccoli, pertanto, lavoratori ammazzati dalle frane, lavoratori lacerati da esplosioni sotterranee, lavoratori morti per silicosi, lavoratori intrappolati, schiacciati, strozzati da micidiali esalazioni nocive…
 
Già, Carbonia, emblematica città del carbone. Città sorta improvvisamente dalla polvere, un po’ come la mitica Las Vegas, realizzata tuttavia nel deserto americano e non nelle solitarie campagne del Sulcis. Carbonia, città simbolo della potenza mistificatrice del regime fascista, città metafora dell’utopia stessa della dittatura imperialista, che ambiva a plasmare un insieme eterogeneo di persone per tramutarle in Nazione compatta, concentrata e solida… Con le dovute proporzioni il nucleo sulcitano rispecchia ciò che il fascismo fece, o tentò di fare, sull’estesa penisola fusa dalle armi dei Savoia. Una Nazione inesistente, una Nazione composta da popoli, etnie e culture diametralmente opposte e variegate. Repubblica di Venezia, Stato Pontificio, Granducato di Toscana, Regno Sardo Piemontese e quello Delle Due Sicilie, microcosmi in cui si strutturarono consuetudini sociali ed intellettuali che prendevano vita da esperienze profondamente diverse. Il fascismo provò ad accordare queste discordanze, cercò di farlo con l’immagine, con la propaganda, forse tentò con l’ordinamento giuridico, di certo provò col manganello e con la spada. A Carbonia tentò di farlo promettendo lavoro e prosperità ma queste masse, più che dalle pianificazioni, dagli slogan istituzionali e dalle prestigiose rappresentazioni, furono compattate dal cemento del dolore e delle difficoltà quotidiane, dall’antica battaglia dei popoli per la sopravvivenza e l’onore.
 
Attraversando le strade di Carbonia si possono incontrare individui che nulla hanno in comune se non le linee verticali del loro destino. I tratti somatici sono sostanzialmente diversi: ecco un viso nordico ed uno meridionale, un ragazzo dai tratti africani ed uno dai lineamenti anglosassoni, ed ancora singolari incroci di cromosomi, quasi stessimo visitando un laboratorio genetico a cielo aperto. Chissà… Sarebbe stato interessante vivere in quei tempi, per verificare in prima persona gli albori di questo nostrano melting pot, come gli yankee chiamano il coabitare di differenti etnie su un medesimo territorio. Questa cittadina è infatti un infinitesimale melting pot, un miscuglio, un promiscuo impasto in cui furono forgiate le differenti culture della nostra Nazione. Napoletani, veneti, siciliani, laziali, abruzzesi, qualsivoglia genere di meridionali e naturalmente sardi. Tutti insieme catapultati in un giovane ed asciutto contesto ambientale, ammassati in abitazioni identiche le une alle altre, a schiera, lineari, a croce, secondo uno stile architettonico rispecchiante l’ordine generale ambito dal romano regime. Oggi come allora l’intreccio è certificato dai cognomi ancora presenti, come tracce lasciate sulla sabbia da uno stanco venditore di tappeti orientali. Cognomi non di certo sardi, talvolta lombardi o calabresi, cognomi grotteschi, cognomi che talvolta si trasformano in aggettivi, sostantivi o verbi. Cognomi appartenenti a famiglie un tempo dominatrici, cognomi che potrebbero evidenziare un vizio oppure una colpa della casata originaria, cognomi che documentano lo stato d’abbandono al momento della nascita, cognomi che talvolta storpiano, etichettando un individuo già nel vitale istante in cui, nascituro, emigrò piangente dall’utero materno.
 
I ricordi della cittadina si manifestano non appena chiudo gli occhi. Soltanto allora posso ancora vederli, mentre ancheggiano nelle strade abbondanti soltanto di pietrame e polvere. Anziani dimenticati su panchine isolate, anziani barcollanti nei larghi marciapiedi, anziani morenti, solitari, sgretolati, mentre si dirigono fiaccamente verso l’appagante ingresso in una Chiesa dalle linee moderne. Ricchi di patos e rassegnazione, incedono stoicamente coi loro consueti bastoni, meditando sulle frasi del prossimo dialogo con l’Altissimo. Si, l’Altissimo, il Direttore generale, il Capo Squadra, quale forme assumerà l’idea dell’Onnipotente nella loro fantasia onirica, con quale voce Questo risponderà alle loro affermazioni? Con quella dell’amico d’infanzia, del padre, della madre, della prostituta a cui rivelarono tutti gli intimi segreti, oppure della moglie persa in una corsia d’ospedale, proprio quando sembrava che potesse farcela… Ebbene si, parleranno coi morti, chiederanno giustizia oppure perdono per delle mancanze, per delle parole, per degli atti scolpiti nell’immacolato marmo dell’eternità. Cosa mai domanderanno, inginocchiati sui banchi di legno massiccio, cosa reclameranno, durante lo scandire delle preghiere ritmate? Una morte indolore, la telefonata di un figlio irriconoscente, la parola gentile di un’infermiera diventata troppo esigente? Oppure chiederanno un briciolo di gioventù, magari col pugno agitato verso il Crocefisso così, per mostrare ancora di cosa sono capaci, di quali gesta gagliarde e temerarie sono ancora custodi. Una rivincita, un duello, un faccia a faccia nel regno dei morti, una richiesta da niente, un piccolo tributo sull’altare della loro coerenza, nient’altro…
 
Eccoli allora atomizzati, in braccio a quelle strade ciottolose che conoscono alla perfezione. Quando un conoscente li saluta accennano un sorriso, nello sguardo la lontana gioventù scivolata troppo rapidamente, come quella nave che attraversò il Tirreno per catapultarli là, nel Sulcis, il granaio dei romani, lontani dalle loro madri, dalle loro amicizie e dai primi malinconici amori… Non so. Si riconosceranno nei giovani che osservano vagabondare sulle stesse strade impolverate? Magari intuiscono quegli sguardi, comprendono la loro pelle e qualche accento non del tutto dissolto, tracce affievolite d’appartenenza a famiglie che non hanno perso del tutto le proprie peculiarità. Si, quei giovani apatici e disperati, quei giovani certamente più istruiti ma del tutto ignoranti dell’essenziale. Quei giovani dal futuro tecnologico su cui s’erano riposte aspettative straordinarie, quei giovani divenuti già uomini ed immortalati nelle immagini sbiadite, qualcuna persino in bianco e nero, qualcuna già sulle marmoree lastre dei cimiteri, vittime del lavoro, dell’ebbrezza o di droghe, ma in primo luogo di se stessi. Giovani emigrati verso legittimi sogni, come tanti anni prima tentarono loro, attratti fatalmente dalle ridondanti sirene del regime.
 
Dinanzi a noi si presenta pertanto il ponte immaginario tra queste generazioni disarticolate, tra questi anziani, eternamente seduti sulle panche solitarie, e quei giovani occultati negli angoli delle strade. Il legame ideale, ovvero una meta fatalmente inseguita per generazioni, un’ambizione cresciuta con lo scorrere del tempo, un’attesa identificabile in un concetto fragile ed inconsistente. Come in altre province dell’isola, anche qui il lavoro si trasforma nella ragione del profetico esodo verso altre regioni, come se Carbonia si trovasse in una fase d’implosione, e le famiglie giunte dai territori d’oltremare stessero rimpatriando nei rispettivi contesti, come se nulla fosse mai accaduto, come se nessuna città fosse mai stata realizzata. Inseguendo il lavoro s’insegue parallelamente la speranza, e tu l’intuisci nei giovani disoccupati, riconosci quelle espressioni quando parlano della crisi di Porto Scuso, della Cassa Integrazione o dello smembramento delle loro aziende. Identifichi facilmente quelle voci e quegli sguardi, sai distinguere con certezza le identiche conclusioni rassegnate. Le stesse parole e le stesse frasi soffocate, nel Sulcis come in Ogliastra, nel Marghine come nel Sassarese. Questi giovanti disorientati accomunati da una prospettiva: partire, abbandonare queste città per condurre un’esistenza dove non si debba chiedere nulla, dove non si debba contestare nulla, dove non si debba salire sulle ciminiere delle fabbriche per urlare le proprie rivendicazioni. Ognuno con una chiara vocazione, tutti con l’identica speranza: poter ritornare in questa terra e tra queste persone, per ricavarsi uno spazio nella città in cui sono nati e cresciuti. Ritornare… Perché la propria casa non può essere sostituita da un’altra casa, e nessuno intende ribellarsi alla nostalgia travolgente che inonda questo cuore di esuli. Sardegna mia, per quanto tu sia bella, illimitatamente splendida e fiera, ti trasformi in un abbaglio che non si può abbracciare.
 
Di Vincenzo Maria D’Ascanio

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