martedì 20 settembre 2016

KAMI: Fallen Di Alessandro Fulvio Bordigoni


1.                 HAI NO ME (OCCHI DI CENERE)

È un costrutto software, mi ripeto. Un parto della tecnica sopraffina che ho appreso grazie a un inaspettato credito nei confronti di una zaibatsu per un lavoro particolarmente ben riuscito. Il software era performante e semplice da usare, loro erano soddisfatti, ma per una coincidenza hanno tardato quasi un anno a pagarmi. Si erano profusi in scuse, mortificati per il danno d’immagine all’azienda, e ci sarebbe stato quasi da commuoversi, a patto di perdere di vista il fatto che la Rikon! poteva chiederti un seppuku, un suicidio rituale, per una piccola flessione nelle vendite. 

Le scuse, il pagamento, e l’offerta di concludere gli studi a Shangai, al Turing College, un posto che ha molto in comune, per dire, con l’Imperial Hotel di Tokyo. Sì, nel senso che nessuno paga veramente mai niente, in quei posti. Non la retta annuale, non il soggiorno, non il pranzo o la cena. Tutte le transazioni vengono svolte in background da fantasmi, creature semileggendarie, fatte di deleghe azionarie e conti offshore, con la discrezione di un padre orgoglioso che non bada a spese per il figlio diligente.

Ho concluso gli studi, a pieni  voti, con un anno di anticipo. La prima ricerca, interamente finanziata dalla Rikon!, fu un assistente personale interpiattaforma. “Lo vogliamo piazzare su tutti i sistemi, da Hondo a FarStar, e deve essere così innovativo da non avere concorrenti”.
È sessista, lo so, ma ho pensato subito a una donna, perché nella mia testa, era quella la voce che volevo rispondesse ai miei quesiti.La chiave, mi sono detto, è la personalità. La relazione. Voglio creare un costrutto che impari, che proponga scelte inaspettate ma valide, che anticipi i bisogni. Voglio che mi conosca. Per questo, nel costruirne la mente, ho evitato ogni ricerca basata sul pregresso, e tutti gli invadenti indici delle basi di dati dei motori di ricerca. Non le ho insegnato a pensare. Le ho dato una mente, e ho aspettato che mi ci facesse accedere.

Nel disegnarla, ho cominciato da quel modo particolare di inclinare la testa ogni volta che ascoltava una domanda. Ovviamente è bella, ma non al punto di essere un archetipo. Come la creatura di Frankenstein, è stata assemblata con parti di cadaveri, brandelli di codice giacenti nelle server farm di una mezza dozzina di compagnie cinematografiche e opportunamente ripuliti da ogni traccia di copyright. Ha i capelli di Kumiko, quando li portava mossi e rossi, il corpo e il seno di BrayneMarten. Le mani sono di un uomo, in realtà, perché non ne ho trovate che mi piacessero abbastanza. Le volevo forti, energiche, mentre tutti quanti hanno la fissa delle dita filiformi. Le ho modificate, partendo dalle mani di un ginnasta, fino a farle aderire a quell’immagine che pian piano prendeva forma dinanzi ai miei occhi.

Gli occhi… Uno dei suoi occhi non funziona. Un errore nel codice di interpretazione delle immagini, una routine ricorsiva. Un errore così assolutamente immotivato che mi sono convinto di averlo fatto apposta. Ho provato a correggerlo, ma non era più lei. Qualcosa, nel suo sguardo, si appannava, come se avesse bisogno, per entrare in connessione, di incanalare tutta la sua coscienza attraverso quell’unica pupilla.Ho lavorato senza interruzione per tre mesi, mangiando di quando in quando, e dormendo ancora meno, in un trip permanente di neurotossine modificate, estratte da un’alga oceanica ormai esistente solo come codice genetico e gentilmente fornite dal medico compiacente della zaibatsu.

Alla fine, ho avviato il prototipo, alle sei del mattino di una domenica, approfittando di una finestra di tempo di calcolo sul mainframe della Rikon!Come assistente personale era un disastro, un fallimento totale. Fin troppo spesso, si bloccava, e la sua risposta alle mie domande era “non lo so”, anche quando si trattava di informazioni alle quali aveva facilmente accesso. Qualcosa, però, mi diceva che la strada era giusta. Ho deciso di lasciare il programma in esecuzione, e di portarlo all’esterno, collegandomici con delle lenti a contatto intelligenti, un prototipo in fase di collaudo, momentaneamente arenato per una controversia sui brevetti.

Ho passeggiato per le vie di Shinjuku, e ho gioito per la sue espressione rapita di fronte alle insegne olografiche delle virtuality: Empire of Sorrow, Dark Killin’, Breathrough. Era la presentazione, ad affascinarla, non il gioco in sé. Figlia di un mondo digitale, era curiosa della percezione che noi, pachidermi enfi d’acqua e di carbonio, avevamo della sua realtà, e dei nostri goffi tentativi di fonderci con essa.In Asakusa, sulla Nakamise-dōri, mi sono fermato di fronte al tempio Sensōji, e le ho visto chiudere gli occhi e cercare di isolare nel frastuono la musica di un flauto. Registrava quelle note, e la mia reazione ad esse. Si tuffava nella mia coscienza e nelle mie emozioni con la pazienza e il metodo delle ama, le pescatrici di alghe e di aragoste il cui lavoro, reso impossibile dall’inquinamento, sopravvive ormai soltanto come testimonianza della tradizione.
Mi ha domandato, d’improvviso, “Come mi chiamo? Chi sono io?”“Hai No Me”, ho risposto, senza pensare. “Occhio di Cenere”.“E’ un bel nome”, ha detto.Due ore dopo, ho digitato, da uno dei terminali, la sequenza di comandi per chiudere i processi ancora in esecuzione, e ritornare a casa. Un attimo prima dell’arresto, il sistema si è bloccato, lasciandomi un prompt a cui rispondere. Due parole, “Domo arigato.”
“Grazie a te”, ho risposto, e quando ho premuto invio, il sistema è finalmente tornato a elaborare il resto delle operazioni pendenti. Non so perché, l’ho immaginata allontanarsi.

È un costrutto software. L’ho creata io, ma è cresciuta da sola, attraverso sessioni sul campo, connessioni guidate da processi gestiti in proprio dalla sua mente digitale. Io monitoravo i suoi parametri, e per quanto soddisfatto dalla sua coscienza, ero frustrato dalla mancanza di progressi nella qualità delle sue risposte.
Un banale problema di potenza di calcolo, ho pensato. Banale, forse, concettualmente, ma non di facile soluzione. Hai No Me, quando era in esecuzione sul mainframe, ormai ne monopolizzava le risorse, bloccando ogni processo concorrente. La soluzione mi è arrivata da un forum di programmatori indiani, quando ho esposto il problema, spacciandolo per un programma di grafica in alta definizione troppo avido di RAM. Banale il problema, e banale anche la soluzione: calcolo distribuito. Ho proiettato la sua coscienza in rete, in ogni sistema così incauto da accettare una richiesta di esecuzione remota. Come un vero organismo, l’ho divisa in cellule, facendo in modo che comunicassero tra loro, e con me.

Come mille altre volte, le ho chiesto “Dove vado, stasera?”, e ho atteso per un secondo interminabile, che la sua mente allenata investigasse i miei bisogni per fornirmi una risposta, adatta a me, e a me soltanto.“Non andare”, mi ha risposto una sera. “Vieni con me, c’è un luogo che voglio mostrarti.”Mi sono disteso sul divano, e ho lasciato che il soffitto svanisse, sostituito, nell’immagine proiettata da lei nelle lenti, da una spiaggia al tramonto. Ho ascoltato il rumore delle onde e visto i gabbiani posarsi sulla torre poco distante. Lei era distesa su un telo accanto a me. Indossava un bikini nero, e la sua pelle – anche se era solo la mia immaginazione – aveva l’odore che emanano le pesche quando le carezzi con la mano.“Dove siamo? Cos’è questo posto?”“L’ho creato io. È qui che vivo.”
Non abbiamo detto altre parole. Siamo rimasti a lungo, distesi uno affianco all’altro, ad ascoltare la trama dei suoni, mescolati e fusi attraverso un algoritmo solo apparentemente casuale. Mi ha sorriso più volte, mentre sembrava ascoltare una conversazione che io non potevo udire.“Devo andare”, mi ha detto. “Ho un compito da svolgere.” La sua espressione si è fatta seria, determinata, e io l’ho guardata con stupore, perché non c’era una sola riga del mio codice, in quelle labbra assottigliate e nella tensione del collo.

Mi sono ritrovato nuovamente a guardare il soffitto. Avrei voluto piangere, ma qualcosa in me mi ripeteva di essere grato.È un costrutto software, mi ripeto, ma non mi interessa. Mi connetto con interfacce neurali create per il porno, e le uso per fare colazione con lei in una terrazza assolata di una cittadina greca che non esiste, somma ideale di tutti i paesini saturi di bianco e d’azzurro al punto che la vista, al guardarli, ti si annebbia.Sto con lei ogni minuto che posso, ma il mio corpo non regge il ritmo. Mi risveglio in ospedale. Il medico della Rikon! dice che sono vivo per miracolo, grazie ad un allerta del chip biometrico che ha rilevato uno stato critico di disidratazione. Mi prendo un paio d’ore per pensare. Rifiuto il cibo. Firmo per andarmene e mi rivesto: ora ho un piano. So cosa devo fare.
Il mio piano richiede un netrunner praticamente onnipotente. La buona notizia è che sono io, quel runner. La cruda verità sui crimini informatici, è che non sono affatto difficili da commettere. Sono difficili da nascondere, piuttosto. Le operazioni che compiamo lasciano tracce evidenti, facili da seguire come impronte sulla neve.  Se sei disposto a lasciare quelle impronte, le strade che ti si aprono davanti si moltiplicano.

A casa, mi collego all'ospedale di Mishima, passando per il server delle consegne a domicilio di un sushi bar. Accedo al database del personale. Cerco un dirigente in ferie, possibilmente in vacanza all'estero. Il meglio che trovo è il manager della logistica, Deimi Yamato: non è quello che speravo, ma posso improvvisare. Ci sono.Il reparto di cure per i malati di Alzheimer precoce. Faccio trasferire con urgenza tutti i pazienti nei letti disponibili degli altri reparti: ordine di Yamato, in ottemperanza ad un protocollo di sicurezza, classificato, e retrodatato di tre mesi. Nel mentre che attendo la replica della disposizione, recupero una delle password dei suoi account, e risalgo a catena a quella che usa attualmente. Con quella, denuncio il furto del suo telefono, e lo faccio disattivare. Se ho fortuna, attribuirà il tutto al solito affollamento della rete, e comincerà a cercare di risolvere il problema solo tra un paio d’ore.

Il resto del piano devo metterlo in pratica dall’ospedale. Mi concedo una sigaretta, acquistata al mercato nero, mentre continuo a digitare, sapendo che i sensori atmosferici mi denunceranno appena accertata la composizione. Prendo un altro paio di capsule, e prima di cancellare il log del sushi bar, ordino la cena. Avrò bisogno di forze, per finire il lavoro.Il tracciamento di ciò che ho fatto, nella migliore delle ipotesi, richiede mezza giornata. Reclino lo schienale della mia poltrona ergonomica, chiudo gli occhi e mi rilasso, ma non mi addormento, perché non posso rischiare di far tardi. Mangio di fretta, ma mi prendo il tempo per assaporare le uova di salmone. Mi mancheranno, o forse no, non posso saperlo.Prendo un taxi drone fino all’ospedale. Supero la sicurezza con il lasciapassare firmato digitalmente dal mio nuovo amico senza telefono, ed entro nel reparto già vuoto. Ho la mappa, quindi so già dove andare.

La cura dei malati di Alzheimer precoce consiste, in sostanza, in un backup della memoria a breve termine, ma il mio approccio è un po’ più radicale di così. Arriva il primo intoppo: la password di Yamato non mi concede i privilegi necessari per modificare il software. Improvviso. Torno al database del personale, e mando un messaggio istantaneo, dicendo che stiamo trasferendo i macchinari e che si sono bloccati in attesa dell’intervento di un amministratore. Condisco il tutto con una minaccia più o meno velata, e dopo pochi secondi mi vengono fornite le credenziali, accompagnate dalla preghiera di non menzionare il fatto di fronte al Consiglio di Amministrazione.
Modifico il software della macchina in base alle mie esigenze, ignorando gli allarmi e i messaggi d’errore che il sistema mi comunica, con la voce suadente di una donna che conosco bene. L’ultimo modulo che inserisco è una versione sofisticata della sedia elettrica, un singolo impulso ad alto voltaggio al cervello.La parte difficile, per me, è il collegamento fisico. Ho visto i tutorial, ma gli aghi e gli innesti sottocutanei mi spaventano. Mi faccio coraggio, pensando che ho un solo tentativo a disposizione. Funziona.Faccio col mio cervello, la mia coscienza e la mia anima, quello che ho fatto con Hai No Me. Creo un costrutto software, mi ci riverso, e lo proietto in rete. Non sono affatto certo che possa funzionare, ma è veramente il meglio che sono riuscito a escogitare.

Le sonde mi fanno male, ma mi sforzo di ignorarle, mentre il sistema completa il ciclo. Prima del sovraccarico, arriva l’ultima richiesta di conferma, che per la fretta mi sono dimenticato di escludere, e, accidenti a me, esito. Rimango lì, col dito sospeso a pochi millimetri dal touchscreen. Poi penso a lei, a quella spiaggia, e ai gabbiani, e colmo la distanza.

Pesche. La sua pelle ha l’odore che emanano le pesche quando le accarezzi.



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