domenica 18 settembre 2016

Quarant’anni, senza figli: e allora? (di Francesca Madrigali)






I quarantenni-e – qualcosa: la generazione senza figli. Non è l’Apocalisse, ovviamente, perché da un punto di vista esistenziale una persona e una coppia sono piene e complete, io credo, anche senza riprodursi.

Mi guardo intorno e semplicemente osservo il cambiamento epocale, certificato anche dall’Istat, che ancora una volta ci ricorda che la Sardegna è una regione a crescita zero (gli eventuali saldi positivi sono dati dagli stranieri). Personalmente conosco più persone e frequento amici o amiche senza figli, tranne qualche rara eccezione con ragazzini adolescenti.


L’impressione è che si stia saltando completamente un giro, e che anche una coppia senza bambini sia (finalmente, aggiungerei) considerata una delle varianti della normalità. Le motivazioni di una scelta della vita così fondamentale sono molteplici. Troppo lungo addentrarvisi, più interessante osservare le conseguenze sociali e culturali del fenomeno, non ultima una crescente intolleranza verso il mondo dell’infanzia, proprio perché avere o entrare in contatto con i bambini non è considerato più un passaggio obbligato della vita.


L’Italia, e in particolare la Sardegna, sono dunque dei territori in cui non si fanno più figli, da parecchio tempo. L’isola in particolare ha una consolidata “tradizione” di uso diffuso dei contraccettivi orali rispetto al Meridione e poi, eventualmente, di genitorialità “attempata”, cioè dopo i 35 anni; negli anni Settanta la parola era utilizzata per le donne che affrontavano la prima gravidanza intorno ai 28 anni. Per dire.


Negli anni Settanta però c’era anche un diverso atteggiamento di genitori e figli verso il futuro. Non so se migliore o peggiore, magari perché più ingenuo e poco profetico.
Non mi sento di criticare quei genitori, oggi come tramortiti nel constatare che l’ascensore sociale che li ha in qualche modo sorretti si è tragicamente inceppato per noi. Pensare che le cose andranno sicuramente bene è un peccato mortale? Ci sono famosi brand commerciali che hanno costruito le loro fortune sul motto “impossibile is nothing” e palle varie, giusto? Scopriamo invece che non tutto è possibile, e per cause indipendenti dalla nostra volontà. Questo giustifica la nostra rassegnazione? Ovviamente no, ma può motivare la nostra incapacità – o la precisa scelta- di non impegnarsi su cose che vadano oltre il momento presente.


Prima o poi il meccanismo si incrinerà, quando il welfare domestico non sarà più sufficiente a tappare le falle lavorative, previdenziali, se vuoi anche esistenziali di almeno due generazioni (dai 50 enni di oggi ai trentenni, più o meno). Ma questa è un’altra storia.
I nostri genitori ci hanno avuti mediamente presto, erano già mediamente “sistemati”, e se volevano un figlio o anche due o tre questo era considerato socialmente logico, a prescindere dal loro grado di sicurezza. Perché un lavoro di solitoce l’avevano, anche se, ovviamente, mica tutti erano dipendenti a tempo indeterminato o roba simile.
Eppure. Eppure i figli li facevano, come li avevano fatti prima i nostri nonni (loro sì spesso poveri, ma con speranza e volontà di riscatto a quintali. E con un mercato del lavoro abbastanza “vergine”).
Poiché io non credo minimamente alla retorica banale e stereotipata del “oggi non hanno voglia di lavorare”, “oggi sono tutti egoisti” e compagnia cantante, mi interrogo un po’ più a fondo su questa mia generazione, condannata – spesso senza desiderarlo- a una specie di eterna giovinezza (attempata anche questa, però, perché giovani lo si è fino ai 25 anni, esagerando).


La scarsa propensione a fare figli è un guaio, una colpa, o peggio ancora una manifestazione di egoismo (questa, in particolare non l’ho mai capita)? E’un problema?
Il problema, semmai, è la costante sensazione che le opportunità siano finite.
Questo, mi sembra, non è accaduto alle generazioni precedenti, perlomeno non in maniera così pervasiva, come fosse una “depressione” di massa. Come fosse, anche, una rassegnazione di massa. E la rassegnazione, si sa, spesso genera mostri: a livello politico, la consueta divaricazione fra un moderatismo furbetto e l’acuirsi degli estremismi, la pericolosa ricerca di figure forti e carismatiche che sembrano, più che essere (e in questo i nuovi media sono un formidabile aiuto per le nullità).


A livello sociale, la tendenza alla disgregazione piuttosto che all’unità (dei lavoratori, dei disoccupati, sui diritti civili ecc.). E certamente, su larga scala, il prossimo futuro ci presenterà un conto salato per un Paese in cui da tempo gli over 65 hanno superato gli under 14. Nelle scelte e nei destini di ognuno/a, fare un bambino non è più scontato, necessario, dovuto alla comunità di riferimento. Va bene così, fatti salvi i casi in cui i desideri non collimano con le possibilità (ma anche questa è un’altra storia. Un’altra volta magari).
Ma resta il fatto che si tratta, semplicemente, dell’evoluzione dei tempi, un profondo cambiamento forse irreversibile, perlomeno in un Paese vecchio (e non solo anagraficamente) come il nostro, che nulla fa per sostenere gli impulsi vitali e innovativi – in ogni senso, anche a livello individuale- a discapito della conservazione dello status quo; è questo che è toccato alla nostra generazione, e su questi temi dovremmo confrontarci più spesso.

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