lunedì 26 settembre 2016

La ributtante autoconservazione del ceto politico.


Dacché la politica ha perso coscienza del proprio rango ontologico smettendo di confrontarsi con le profonde trasformazioni in atto, le quali hanno finito per svuotarne dall’interno concetti e categorie, si è ridotta a vuote liturgie, a banali forme spettacolari il cui unico ed esclusivo scopo sembra essere quello dell’autoconservazione di un ceto politico in avanzato stato di putrefazione.
Anch’essa oggetto di una ipertrofia del linguaggio, con conseguente sovvertimento della relazione tra mezzi e fini (restano i mezzi, i gesti, le liturgie “spettacolari”, ma del tutto sganciati da un loro fine), non ha proprio più nulla da dire.
Incapace di sguardi lunghi e di partorire uno straccio di visione strategica, assillata dalle scadenza elettorale (l’unica vera ragione d’essere del ceto politico di professione), non le resta che insistere su improbabili rinnovamenti, la cui supposta necessità è quotidianamente ribadita quasi fosse un mantra in grado di tramutare le superstizioni spettacolari in verità percorribili, proprio quando si è, al contrario, miseramente ridotta ad amministrare, per conto terzi, un esistente sempre più “merdoso” certificando il proprio nulla, e che gli elettori ratificano disertando sempre di più le urne.
Però è tutta una “ripartenza”, un rinnovare, un ricostruire, un ristabilire una “connessione sentimentale col popolo”. Nel campo della cosiddetta sinistra, tutto questo ha, tra le altre cose, un non so ché di patetico da renderla addirittura ributtante.


Luca Pusceddu.

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