martedì 14 febbraio 2017

Rassegna stampa 14 Febbraio 2017

La Nuova Sardegna

Il senatore difende l’assessore all’Istruzione. A marzo il ministro Fedeli a Ghilarza Altolà di Uras: Firino resti in giunta. CAGLIARI

«La Firino non si tocca». Il senatore Luciano Uras risponde ai consiglieri regionali del gruppo ex Sel che avevano chiesto la sua testa. «Claudia è assessore alla Pubblica istruzione perché noi abbiamo contribuito molto, e non poco, all'elezione di Francesco Pigliaru.  Eppure la sua permanenza in giunta è oggetto puntuale di indiscrezioni offensive. Se fossi il presidente della Regione direi a tutti di smetterla, perché non c'è discussione su quest'argomento».

Uras, senatore ex Sel ora esponente del Campo progressista lanciato da Giuliano Pisapia, stronca sul nascere le spinte che arrivano anche da esponenti del suo ex partito e blinda l'assessore di riferimento. «A inizio legislatura – spiega Uras – Pigliaru ha ritenuto di avere una squadra di sua fiducia molto più ampia di quanto fosse rappresentativa sul piano politico elettorale, noi abbiamo accettato questa cosa perché c'è un patto di fiducia reciproco che non vorrei fosse messo in discussione».

A proposito di istruzione, il 6 marzo, annuncia Uras, sarà a Ghilarza il ministro Valeria Fedeli per la promozione di un progetto scolastico sul tema dell'accoglienza. Quanto alla modifica della legge elettorale, il senatore ha ribadito la sua posizione. «Io mi aspetto che il governatore esca anche su questi temi: la questione di genere deve essere una sua questione perché lui è presidente della Regione di uno schieramento politico democratico e progressista, e questo si deve vedere». Sull’argomento, si discuterà il 13 ottobre davanti al tribunale civile di Cagliari il ricorso contro la legge elettorale della Sardegna presentato da Uras insieme all’assessore Claudia Firino e a quello all’Urbanistica del Comune di Cagliari Francesca Ghirra. La legge è stata impugnata perché «non consente una equilibrata rappresentanza di genere».

I ricorrenti, tutti ex Sel che guardano con interesse al Campo progressista dell’ex sindaco di Milano, mirano all’introduzione della doppia preferenza di genere per garantire un’adeguata rappresentanza femminile nella massima assemblea sarda.


 Unione Sarda

E in Sardegna invece lo scontro può slittare
Primarie insieme al nazionale? Intanto gli ex Sel frenano il rimpasto

Legge elettorale con doppia preferenza di genere, congresso del Pd,
rimpasto in Giunta: ecco i temi più caldi per la politica sarda. Nel
primo caso i tempi per una soluzione potrebbero allungarsi: il 13
ottobre approderà in tribunale la battaglia sul mancato rispetto della
rappresentanza di genere alle ultime elezioni, promossa contro il
Consiglio regionale dagli ex esponenti di Sel Luciano Uras (senatore),
Francesca Ghirra (assessora all'Urbanistica del comune di Cagliari),
Claudia Firino (assessora alla Cultura della Regione) e Ignazio Tolu
(sub commissario della provincia del sud Sardegna).

Lo stesso vale per il congresso del Pd: se a livello nazionale si va a
congresso anticipato, quello sardo potrebbe slittare per sincronizzare
le date delle primarie. Saranno sufficienti, invece, pochi giorni per
venire a capo della questione rimpasto. È stato lo stesso Francesco
Pigliaru a imprimere una svolta: appena rientrato al lavoro avrebbe
manifestato l'intenzione di chiudere subito la partita.

Le condizioni ci sono. Le tre grandi correnti del Pd hanno raggiunto
un accordo. L'area Cabras-Fadda conferma i due assessori di
riferimento: Massimo Deiana (Trasporti) e Cristiano Erriu (Enti
locali). L'ex minoranza occupa già la casella del Lavoro, con Virginia
Mura, e ora i renziani della prima ora potranno riempirne un'altra con
l'ex consigliere regionale olbiese Pierluigi Caria, che approderebbe
all'Agricoltura lasciata libera da Elisabetta Falchi.

Filippo Spanu, attuale capo di gabinetto di Pigliaru, andrebbe (in quota
presidenziale) agli Affari generali al posto di Gianmario Demuro.
I soriani prenderebbero “in carico” l'assessore alla Sanità Luigi
Arru, ferma però la possibilità di esprimere un altro nome. L'ex
assessora alle Attività produttive del Comune di Cagliari, Barbara
Argiolas? E al posto di chi? Difficile che lasci la titolare
dell'Istruzione, Claudia Firino. Ieri il senatore ex Sel Luciano Uras
è stato chiaro: «Lei è in Giunta perché noi abbiamo contribuito, e non
poco, all'elezione del presidente della Regione. Eppure la sua
permanenza è oggetto puntuale di indiscrezioni offensive. Se fossi il
governatore direi a tutti di smetterla, perché non c'è discussione su
quest'argomento».

Tradotto: Firino non si tocca. Potrebbero essere
“toccabili”, invece, il titolare del Turismo, Francesco Morandi (area
Cd), oppure l'assessora all'Industria Maria Grazia Piras (area Upc).
Sempre a condizione che, alla fine, anche nel secondo esecutivo
Pigliaru le donne siano almeno quattro come la legge stabilisce.
Non esiste, invece, una legge elettorale che preveda un'adeguata
rappresentanza di donne in Consiglio regionale: secondo gli esponenti
ex Sel che hanno citato in giudizio il Consiglio regionale, alle
ultime consultazioni regionali «il diritto di voto è stato esercitato
in mancanza del rispetto delle garanzie costituzionali in tema di
rappresentanza di genere».
Roberto Murgia

Renzi corre, congresso subito Bersani: «Scissione? Vedremo»
Ok in direzione all'anticipo chiesto dal leader. No al documento pro-Gentiloni

ROMA «È finito un ciclo», annuncia Matteo Renzi in Direzione. E sembra
che parli di Gentiloni più che di sé.
Certo, il segretario apre al congresso in tempi rapidi e all'Assemblea
del partito si presenterà presumibilmente dimissionario, per
accelerare la nascita del nuovo vertice democrat. Ma è a sé che pensa
come segretario e quindi come candidato premier, e questo non allunga
la vita al governo. Che senso avrebbero altrimenti i visi lunghissimi
della minoranza interna, Bersani in primis, che si vede bocciare -
anzi, neppure mettere in votazione - il documento di sostegno al
presidente del Consiglio in carica?

MARE APERTO E suona come una richiesta di pieni poteri, o almeno pieno
sostegno alla riconquista di Palazzo Chigi, il monito renziano:
«Preferisco il mare aperto della sfida che la palude. Facciamo il
congresso e chi perde il giorno dopo dia una mano, non scappi con il
pallone, non lasci da solo chi vince le primarie, non faccia quanto
avvenuto a Roma».

Oppure, più esplicito: «Io non dico “vattene”, io dico “venite,
confrontiamoci, vediamo chi ha più popolo, rendiamo contendibile la
leadership”, dico “venite” anche a chi sta fuori del Pd, è aperto il
tesseramento». E se non hanno un sapore pre-elettorale, la
rivendicazione del 40% alle Europee, le bacchettate all'Europa
«maestrina», le indicazioni a Padoan su come riassestare i conti senza
aumentare le accise sono tutti capitoli di un rilancio in piena regola.

«SMS SBAGLIATO» A chi voleva un supplemento di autocritica dopo il ko
referendario del 4 dicembre, il segretario concede una marginalissima
soddisfazione, citando «la reazione tra i parlamentari su un sms che
avrei potuto risparmiarmi. Spero ci sia la stessa forza quando dovremo
spiegare perché è stata allungata una legislatura che tre anni fa
sembrava bloccata». Il messaggino sarebbe quello sui vitalizi da
evitare a tutti i costi, cioè andando al voto prima del giro di boa
della legislatura. Ma detto questo, Renzi non ha molto da
rimproverarsi. E non sarà prospettando la scissione che lo si farà
tornare a più miti consigli.

I toni sono sereni - «Agli amici e
compagni della minoranza dico: mi spiace se costituisco il vostro
incubo, ma voi non sarete mai i nostri avversari, per noi gli
avversari sono fuori da questa stanza» - ma il leader non terrà unito
il Pd a costo di passi indietro e compromessi. Quella è roba del
passato: «Dal giorno dopo del referendum la politica italiana ha messo
le lancette indietro a riti e metodi dimenticati negli ultimi anni.
Abbiamo riniziato con le discussioni interne dure, spesso
autoreferenziali, sono tornati i caminetti. Invece di chiederci dove
va l'Italia, tutto il dibattito è stato imperniato su quanto dura la
legislatura, quando si fa il congresso».

LA MINORANZA Insomma, nessuno pensi di condizionare il segretario e se
davvero si vuole fare la scissione, la si faccia «sulle idee, non sugli alibi».
Ma se voleva essere un disinvolto esorcismo della spaccatura, non pare
aver funzionato moltissimo. A fine direzione le tante anime della
minoranza interna non escludono la scissione: al contrario. Uno dei
critici più puntuali e affilati di Renzi, il lettiano Francesco
Boccia, va via spiegando che «siamo alle solite: nonostante un primo
tentativo di confronto con numerosi buoni spunti sia da chi è in
maggioranza che da chi è in minoranza, alla fine ha prevalso, ancora
una volta, la sindrome di Forrest Gump. Abbiamo un segretario che
pretende di fare un congresso lampo di qualche settimana, mandando a
casa l'ennesimo governo targato Pd e non assumendosi la responsabilità
politica del Pd verso la legislatura».

BERSANI Non è più bonario Bersani, che sulle scissione non elargisce
nulla di più rassicurante di un «adesso vedremo» e al segretario
notifica il suo no «a un congresso cotto e mangiato con una spada di
Damocle sul nostro governo mentre dobbiamo fare la legge elettorale e
mentre dobbiamo fare le elezioni amministrative. Non è il messaggio
giusto da dare al Paese. Siamo il partito che governa, dobbiamo
garantire che la legislatura abbia il suo compimento normale e che il
governo governi correggendo qualcosa che abbiamo fatto e che il
congresso si faccia nel suo tempo ordinario, cioè da statuto parte a
giugno e si conclude a ottobre, sarebbe questa la cosa più normale.
Non ho sentito dire se vogliamo accompagnare il governo fino alla fine
della legislatura».

«CONFRONTO VERO Michele Emiliano ufficializza la propria candidatura e
inserisce un congresso ad aprile «senza conoscere la legge elettorale,
senza sapere quante sezioni sono commissariate e con la Pasqua in
mezzo» tra le cose che «fanno rischiare la scissione». Orlando invece
tenta la mediazione e propone una conferenza programmatica, invitando
il partito a non fare delle primarie «la sagra dell'antipolitica».
«Quando in un partito ci sono linee diverse, la strada giusta è un
Congresso. E un confronto vero può essere anzi il modo per evitare
scissioni», twitta sibillino Dario Franceschini.

La Nuova Sardegna

La direzione approva a maggioranza la relazione di Renzi, ora le dimissioni
Non messa ai voti la mozione di Bersani sul sostegno al governo fino al 2018
Pd a congresso subito Resta l’idea scissione. di Maria Berlinguer wROMA

Congresso lampo entro aprile e nuova
investitura popolare. Matteo Renzi stravince il primo match con la
minoranza che in direzione chiede di celebrare il congresso nei tempi
stabili dallo statuto e di impegnare tutto il Pd a votare una mozione
che garantisca al governo Gentiloni il sostegno del partito fino a
scadenza naturale, il 2018. Alla fine la direzione ha approvato con
107 sì, 12 contrari e 5 astenuti la mozione presentata dai renziani.

E non ha messo ai voti la proposta di Bersani. «È annullata, visto che è
passata la prima» spiega Matteo Orfini. È Piero Fassino (area
Franceschini) a insistere. È un punto pericoloso, «questa assemblea si
prepara a votare la fiducia al governo Gentiloni», avverte prima della
conta finale l’ex segretario Ds. Ma per la minoranza l’esclusione dal
voto del loro documento «svela il giochetto di Renzi» che ancora punta
a elezioni anticipate. «Da oggi è chiaro: Paolo stai sereno», dice il
bersaniano Davide Zoggia. Quanto alla scissione nulla è escluso.
«Vedremo», dice dopo la direzione Pier Luigi Bersani. Mentre Gianni
Cuperlo aggiunge: «Oggi il Pd è seriamente a rischio». Il primo vero
confronto tra le varie anime del partito dopo la batosta del
referendum si è trasformato in un redde rationem.

Camicia e maglione stile Marchionne, Renzi parla per più di un’ora. In platea, in un
centro congressi a due passi da piazza di Spagna, oltre ai
parlamentari, ci sono D’Alema, Gentiloni e anche il ministro Padoan.
«Oggi si è chiuso un ciclo che è iniziato il 15 dicembre del 2013, ho
preso un partito che aveva il 25% e lo abbiamo portato al 40,8%
nell’unica consultazione politica e gli ho dato una casa», sottolinea.
Agli oppositori interni che lo accusano di non aver analizzato i
motivi della sconfitta del 4 dicembre Renzi ricorda di essersi
dimesso. L’ex premier parte dallo scenario internazionale. L’avvento
di Trump, la minaccia populista in Europa con la Le Pen e in Italia
con Grillo. In questo quadro noi dobbiamo rappresentare la speranza,
dice. La minoranza (e anche a Prodi) chiede una presa di posizione sul
no a elezioni anticipate. «Viene prima il Paese» dice Bersani. «Non
sono io a decidere, non spetta a me, sarà una valutazione di altri, il
modo più serio di sostenere il governo è quello di lavorare», dice.

In un momento di grandi cambiamenti «il più grande partito della sinistra
europea che fa? Discute sulla scissione e su quali basi? Se il
segretario non fa il congresso prima delle elezioni, sarà scissione.
Messa così è un ricatto». «Io non dico andatevene, dico venite e
discutiamo, vediamo chi ha più popolo con sé», dice invitando però
tutti a darsi una «regolata». Se deve essere scissione deve essere
fatta senza cercare alibi, aggiunge il segretario dem. «Potete
prendere in giro me non la nostra gente», aggiunge. Davanti a Padoan e
Gentiloni rivendica tutti i successi dei suoi mille giorni a Palazzo
Chigi. «È vero o no che una parte di popolo non ci sopporta?», incalza
Bersani che chiede di riconnettersi con quella parte della sinistra
che non vota più il Pd.

Bisogna cambiare sulla scuola e sul lavoro,
correggere gli errori, chiede, per questo il governo deve continuare a
lavorare e il congresso deve svolgersi dando il tempo di una
riflessione vera perché le cose «cotte e mangiate non porteranno nulla
di buono», avverte. E dubbi sul congresso immediato li esterna anche
il ministro Andrea Orlando. Il Guardasigilli prova a proporre una
conferenza programmatica. «Il congresso per fare una discussione vera
è come fare le tagliatelle con la macchina da scrivere perché in base
al nostro statuto serve solo a legittimare il leader», spiega Orlando,
sospettato di poter diventare il candidato della sinistra. Poi tocca a
Emiliano e Enrico Rossi. Entrambi candidati alla segreteria. Rossi
insiste sulla necessità di tornare a sinistra. È il momento della
conta. Orlando si astiene, rompe con la maggioranza. Ma il timing è
deciso. Sabato assemblea e dimissioni. Poi via al congresso.

Nel 2013 l’iter durò quasi tre mesi, i candidati stabiliti
dall’assemblea nazionale Lo statuto scandisce tempi e tappe

ROMA L’articolo 9 dello statuto del Pd indica i principi fondamentali
in base ai quali si svolge il congresso che si articola in due fasi:
prima la Convenzione in cui votano gli iscritti del partito e poi le
primarie. Ma la road map viene disciplinata da un regolamento che di
volta in volta deve essere approvato dalla direzione nazionale con il
voto favorevole della maggioranza assoluta dei suoi componenti.
Secondo lo statuto del Pd (art.5), il congresso e le primarie si
svolgono ogni quattro anni, il che implica che il prossimo dovrebbe
tenersi in autunno, dato che il precedente ha avuto luogo tra
settembre e dicembre 2013.

Ma sono previsti diversi casi in cui
congresso e primarie possono essere anticipati, tra i quali le
dimissioni del segretario. Occorrerebbero dunque le dimissioni di
Renzi da segretario, o una sfiducia nei suoi confronti da parte
dell’assemblea nazionale, per aprire subito il congresso dem che
sarebbe indetto, in base all’articolo 5 comma 2 dello statuto, dal
presidente del Pd, in questo caso Orfini. Per essere ammesse alla
prima fase del procedimento elettorale, le candidature a segretario
devono essere sottoscritte da almeno il 10% dei componenti
dell’assemblea nazionale uscente o da un numero di iscritti compreso
tra i 1.500 e duemila, distribuiti in non meno di cinque regioni.
Risultano ammessi all’elezione del segretario nazionale i tre
candidati che abbiano ottenuto il consenso del maggior numero di
iscritti purché abbiano ottenuto almeno il 5% dei voti e, in ogni
caso, quelli che abbiano ottenuto almeno il 15% dei voti in almeno
cinque regioni o province autonome.

Fin qui i principi inderogabili,
mentre i tempi dei vari passaggi sono stabiliti dal regolamento: nel
2013 si discusse per quasi un mese sulle regole e poi la direzione del
27 settembre approvò la road map che si concluse l’8 dicembre con le
primarie. Entro l’11 ottobre si fissò il termine per depositare alla
commissione nazionale le candidature alla segreteria con relative
liste programmatiche. Si decise che in ciascun collegio poteva essere
presentata una lista collegata a ciascun candidato da presentare entro
il 25 novembre. La Convenzione nazionale si riunì il 24 novembre e
determinò i 3 candidati da ammettere alle primarie. Alle primarie
votarono i tesserati e gli elettori che si dichiarano di riconoscere
nella proposta politica del Pd e danno un contributo di 2 euro.


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Federico Marini

skype: federico1970ca

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