lunedì 20 febbraio 2017

Rassegna stampa 20 Febbraio 2017

Unione Sarda

Lo stupore dei big sardi: «Spaccatura assurda» «Ma è colpa di Matteo»

Tre minuti dopo le otto di sera. L'assemblea nazionale del Pd si è chiusa da meno di tre ore. E ne sarà passata a malapena una dalla dichiarazione di Emiliano, Speranza e Rossi, che di fatto annuncia la scissione. «Non riesco a capire», confessa al telefono il deputato Francesco Sanna: «Siamo andati via dall'assemblea pensando che ci fosse una schiarita. Dopo il discorso di Emiliano, tutti avevamo capito che lui stesse abbandonando l'idea di andarsene».

STUPORE E invece no, anche se fino a tarda sera nessuno ha ancora ben chiaro che cosa stia accadendo. «Se ci fosse davvero la scissione sarebbe gravissimo», prosegue Sanna. «Sembrava solo un problema di tempi del dibattito congressuale». Lo stupore e l'avvilimento del deputato sulcitano, candidato alla segreteria regionale del Pd, è lo stesso di uno dei suoi due concorrenti, il senatore Giuseppe Luigi Cucca, anche lui reduce dall'assemblea: «È stata una giornata di grande sofferenza, speravo in una ricomposizione. Non capisco i motivi dello strappo: solo per i tempi del congresso? Sabato alla riunione della minoranza è stato detto che Renzi se ne deve andare, ma questa è una pretesa assurda». Per altro, secondo Cucca, «lo stesso segretario ha ammesso di aver fatto errori, ma poi ha praticamente accolto tutte le richieste della minoranza».

Non la pensa così invece il terzo candidato alla guida del Pd regionale, Yuri Marcialis, che ha seguito l'assemblea da casa: «Renzi sta seguendo la strada che aveva già deciso», commenta, «prima le dimissioni, poi subito la direzione nazionale per dettare i tempi del congresso. La sua relazione di apertura sembrava già l'inizio della campagna elettorale per le primarie. Se poi non fa nemmeno la replica finale, significa che tutto il dibattito non serve a nulla».

CRITICHE AL LEADER Marcialis si è proposto alla guida del partito per conto di un'area che va dagli ex civatiani ad ampi pezzi della sinistra interna: legittimo chiedersi se anche lui intenda lasciare. «Non sto uscendo dal Pd - risponde - e la mia candidatura resta in campo. Anzi, se chi dice di tenere all'unità del partito volessero lanciare un segnale a Renzi, potrebbe sostenere me». In Sardegna i renziani occupano tutti gli incarichi istituzionali, «ma il vero problema - conclude - è che la scissione la stanno facendo soprattutto i tanti militanti che non hanno rinnovato la tessera».

Riflessione simile a quella, molto dura verso Renzi, del deputato Marco Meloni: «Sento tanti cittadini che non vogliono più votare questo Pd. Certo, Matteo ha ancora consenso, ma è assurdo che voglia fare un congresso subito perché sa di perdere le prossime amministrative e vuole rafforzare la sua posizione. Se hai quel timore, cerca di vincere nei Comuni, non di vincere un congresso».

Meloni, da sempre molto vicino all'ex premier Enrico Letta, non sa ancora che cosa deciderà personalmente: «Ma anche se restassi nel partito, questo non è più il Pd per cui la mia generazione politica ha lavorato tanto. Quel partito sintetizzava l'idea della fatica di ascoltare anche voci lontane, metterle insieme per il bene del Paese. Nasceva dal presupposto di un rispetto reciproco che ora non vedo, fin dai primi atti del segretario, come far fuori un presidente del Consiglio del nostro partito». Secondo il deputato quartese, «Renzi ha condotto questa vicenda in modo del tutto irresponsabile. In assemblea non ha neppure risposto alle richieste della minoranza. Spero solo che ci sia ancora lo spazio per evitare la scissione, che per il Pd sarebbe un esito luttuoso». G. M.


Inutili i molti appelli all'unità. Renzi lascia per aprire il congresso
Pd, assemblea choc Niente intesa, è scissione

ROMA «Sono contento di parlare dopo il sosia di Emiliano».
All'assemblea del Pd il sottosegretario Antonello Giacomelli -
giornalista, toscanaccio di Prato - fa lo spiritoso: quanto si
assomigliano il presidente della Puglia, che sabato infiammava la
riunione antirenziana, e il signore corpulento ed emozionato che ora
ha «fiducia nel segretario», giura che «nessuno potrebbe pensare» che
Renzi non deve ricandidarsi e la scissione siamo «a un passo
dall'evitarla».

È chiaro a tutti, insomma, a Giacomelli e ai big e ai quasi big che
fino ad allora dalla tribunetta di Parco dei Principi predicavano
unità, che se non tutta, almeno metà scissione è svanita.
Ma sono ancora le 16,32.

COMUNICATO Alle 18,59 un comunicato cambia il verso della giornata e
la storia del più importante partito progressista europeo. Emiliano
non si è ammansito, anzi con Roberto Speranza ed Enrico Rossi, che
come lui volevano candidarsi alla segreteria, annuncia: «È ormai
chiaro che è Renzi ad aver scelto la strada della scissione
assumendosi così una responsabilità gravissima».
Quanto alle aperture del pomeriggio, non erano una fuga all'indietro
del governatore pugliese ma un'iniziativa concordata con gli altri
concorrenti: «Anche oggi nei nostri interventi in assemblea c'è stato
un ennesimo generoso tentativo unitario. È purtroppo caduto nel nulla.
Abbiamo atteso invano un'assunzione delle questioni politiche che
erano state poste, non solo da noi, ma anche in altri interventi di
esponenti della maggioranza del partito. La replica finale non è
neanche stata fatta».

È vero, Renzi non ha concluso l'assemblea con un suo intervento. L'ha
solo aperta, in mattinata, alternando l'elogio del rispetto reciproco
e gli inviti all'unità a sottolineature brusche sulla differenza fra
la scissione - sopportabile - e i ricatti (insopportabili). E se
qualcuno vorrebbe un suo passo indietro, sappia che «avete il diritto
di sconfiggerci, non quello di eliminarci».
PADRI NOBILI Dopo il segretario non più in carica - nella relazione di
apertura Renzi ha dato le annunciate dimissioni, aprendo la stagione
congressuale per i prossimi quattro mesi - hanno parlato suoi
predecessori come Veltroni e Franceschini, padri nobili come Franco
Marini e Piero Fassino, critici di Renzi come il ministro Andrea
Orlando e soprattutto Gianni Cuperlo: per tutti la parola d'ordine è
il no alla scissione, l'appello ai sentimenti unitari alternato a
considerazioni tattiche sull'inopportunità di andare alle politiche
dopo mesi spesi a parlare solo e soltanto di scissione.
IL PASSETTINO Ma gli appelli non possono bastare. L'apertura vera, il
passettino al quale accennava l'Emiliano prima maniera avrebbe dovuto
farlo Renzi.

Ad esempio accettando l'idea della conferenza programmatica che
Orlando e il suo collega all'Agricoltura Martina (dato dalle
complicate geografie interne come leader dell'ala sinistra dei Giovani
Turchi) chiedevano in assemblea. Oppure «chiudendosi in una stanza con
Emiliano, Rossi e Speranza», come chiedevano altri. O ancora
accettando di riflettere su un iter congressuale più lungo, che
potesse dare ai candidati alternativi fiato pe qualche chance non
simbolica di vincere il congresso. Oppure, semplicemente, dicendo
qualcosa.

IL MURO Invece Renzi non ha replicato. Ha «alzato un muro», borbotta
sconfortato Pierluigi Bersani in tv. «Ha alzato un muro», farà eco
poco dopo Rossi. Ha alzato un muro e si è assunto una responsabilità
gravissima, diranno Rossi-Speranza-Emiliano poco dopo, lasciando al
vicesegretario Lorenzo Guerini il compito di dirsi «esterrefatto ed
amareggiato» per una «decisione già presa». Lo era di sicuro, ma forse
non solo da loro.

Domani si riunisce la direzione: l'ha convocata a fine assemblea
Orfini, presidente del Pd, perché avvii il congresso. Quando lo ha
fatto pareva ci fossero quattro candidati e un partito solo. Due ore
dopo i candidati sono diminuiti - forse c'è solo Renzi, forse si farà
comunque avanti Orlando, forse chissà - e al partito manca un pezzo.



La Nuova

Fondi ai gruppi, oggi la sentenza - Mario Floris, Oscar Cherchi e
Alberto Randazzo a rischio decadenza

Quattordici consiglieri regionali accusati di peculato, la vicenda della Piredda
CAGLIARI A otto mesi e mezzo dalla requisitoria in cui il pm Marco
Cocco ha chiesto quattordici condanne tra due e sette anni, oggi il
tribunale presieduto da Mauro Grandesso si ritira alle 10.30 in camera
di consiglio per chiudere con la sentenza il processo principale per i
fondi ai gruppi. L’appuntamento è per le 10.30, impossibile fare
previsioni sull’ora in cui il collegio tornerà in aula per leggere il
dispositivo. Per tre imputati - Mario Floris, Oscar Cherchi e Alberto
Randazzo - la condanna farebbe scattare l’uscita dal consiglio
regionale in base alla legge Severino. Chi è convinto che quello di
oggi sia il punto di svolta del procedimento più clamoroso del
decennio è del tutto fuori strada: con cinque condanne - di cui una
confermata in appello - e due patteggiamenti già chiusi, il tribunale
di Cagliari ha già espresso con chiarezza il proprio orientamento
sull’equazione fondi ai gruppi-peculato.

La differenza tra questo e
gli altri procedimenti legati all’uso dei fondi pubblici del consiglio
regionale è che il verdetto di oggi riguarda anche la vicenda della
teste-chiave Ornella Piredda, che coi suoi esposti ha dato l’avvio
all’indagine: lo scorso 31 maggio il pm Cocco ha chiesto sette anni di
carcere per Giuseppe Atzeri, l’ex leader sardista che risponde anche
di un secondo peculato, falso e maltrattamenti per aver «cercato di
neutralizzare la funzionaria».

Dal tribunale si attende una decisione
sul risarcimento di quello che la Procura ha letto come mobbing nei
confronti della Piredda, uscita dalla vicenda menomata nella salute:
«E’ stata lei a bussare alle porte della Procura - ha detto il
magistrato - e malgrado la difesa abbia cercato di denigrarla, i fatti
dicono che ha preso l’iniziativa di denunciare e di fermare quel
sistema degenerato senza alcun interesse personale». Messa all’indice,
emarginata, allontanata: «Nell’attimo in cui la Piredda ha chiesto
spiegazioni sulle spese al presidente del gruppo misto Atzeri e ha
rivendicato i propri diritti per lei è cominciata una stagione da
incubo della quale ancor’oggi porta i segni e le conseguenze anche nel
proprio fisico, come i periti hanno testimoniato».

Con Atzeri
attendono la sentenza Maria Grazia Caligaris, Mario Floris, Oscar
Cherchi, Raffaele Farigu, Carmelo Cachia, Sergio Marracini, Salvatore
Serra, Salvatore Amadu, Alberto e Vittorio Randazzo, Pierangelo Masia,
Giommaria Uggias e Raimondo Ibba. (m.l)

Assemblea Pd, il segretario si dimette. Domani la direzione per il congresso
Nessuna apertura alla minoranza: «Non avete il copyright della sinistra»

Renzi: «No ai ricatti» Ma per ora è scissione
di Maria Berlinguer wROMA Il dado è tratto. Il Pd, salvo colpi di
scena sempre possibili ma assai improbabili, ha consumato la sua
scissione alla fine di una giornata drammatica. O forse no, se è vero
che in tarda serata gli uomini più vicini a Michele Emiliano avvertono
che c’è tempo fino a martedì. Ma per i renziani l’epilogo della
giornata più lunga del Pd era già scritto. «Avevano già deciso di
uscire», dicono attribuendo a Massimo D’Alema la regia della rottura.
In serata, dopo l’Assemblea Pd, una nota firmata da Michele Emiliano,
Enrico Rossi e Roberto Speranza, i tre leader della minoranza,
denuncia: «Abbiamo atteso invano delle risposte è ormai chiaro che è
Renzi ad aver scelto la scissione».

E in effetti Matteo Renzi non ha
concesso nulla alle richieste della sinistra del partito per restare
uniti. Non un congresso in tempi ragionevoli, non l’avvio di una
assemblea programmatica per avviare il confronto interno sui tempi che
hanno diviso vertice e militanti come il jobs act e la scuola. «Fuori
ci prendono per matti, discutiamo ma poi rimettiamoci in cammino»,
dice Renzi. «Scissione è una delle parole del vocabolario politico,
peggio c’è solo la parola ricatto, un grande partito non può essere
fermato dal ricatto di una minoranza», aggiunge. Pochi minuti prima
Matteo Orfini, presidente del Pd, annuncia ai 637 delegati su 1.000
arrivati all’Hotel parco dei Principi di aver ricevuto le dimissioni
formali di Matteo Renzi da segretario, passo formale e decisivo per
indire i congresso del partito che nelle intenzioni dell’ex premier
deve chiudersi con le primarie il 9 aprile, in tempo per la campagna
elettorale delle amministrative.

Primarie nelle quali Renzi spera di
avere un nuovo plebiscito popolare per la segreteria e per tornare a
palazzo Chigi. Sabato al teatro Vittoria sono risuonate la parole di
Bandiera Rossa. Qualcuno ha ipotizzato un passo indietro di Renzi per
evitare la scissione. «C’ho pensato», assicura l’ex premier mentre
dalla sala i fan rumoreggiano sgomenti. «Un momento, l’ho solo
pensato. Non si può chiedere a una persona di non candidarsi perché
solo questo evita la scissione, avete il diritto di sconfiggerci non
di eliminarci». Quanto alla minoranza che rivendica le sue radici a
sinistra anche su questo Renzi è netto: «Non avere il copyright della
sinistra, non è come chi dice “capotavola è dove siedo io», dice con
evidente frecciata a D’Alema. «La parola che propongo oggi è
rispetto», azzarda.

La strategia renziana, studiata nei dettagli,
prevede che prendano la parola in assemblea i dirigenti di provenienza
Ds. Dopo Guglielmo Epifani che prende la parola a nome di tutte le
minoranze ed è durissimo, sfilano sul palco Teresa Bellanova, ex
sindacalista Cgil, Piero Fassino e Claudio De Vincenti. È Walter
Veltroni però a scaldare la platea. E il suo è un appello da padre
nobile del Pd. «Ai compagni dico che il Pd ha bisogno di voi» dice
Veltroni ricordano i danni che le scissioni a sinistra hanno provocato
non solo alla sinistra ma al Paese. Un ritorno ai Ds e alla
Margherita, sarebbe un ritorno al passato non al futuro, avverte
Veltroni. Per l’ex segretario c’è una standing ovation, ma le parole
di unità che pronuncia cadono nel vuoto e il copione degli interventi
segue il filo prestabilito.

Tocca a un altro segretario, Dario
Franceschini, insistere per una pausa di riflessione. «Non decidete
ora, c’è ancora tempo» chiede alla minoranza Franceschini, alleato di
Renzi, ma impegnato con Delrio a cercare di evitare strappi dolorosi.
A lui, alle sue capacità di mediazione guarda ancora una parte di
minoranza convinta che ancora non sia detta la parole fine. E una
mediazione prova ancora Andrea Orlando. Il ministro della Giustizia
chiede la convocazione di una conferenza programmatica. E comunque
avverte: l’uscita della minoranza non sarà indolore, il Pd non sarà
più quello di prima. Per ora però Matteo Renzi tira dritto. Il leader
dem non replica all’apertura di Emiliano che spiazza la sinistra che
teme si sfili, ma irrita i renziani. La tabella di marcia è già
segnata. Martedì la direzione per le date del congresso. La cavalcata
di Renzi per riprendersi il partito comincerà dove il Pd è nato, al
Lingotto, il 10 e l’11 marzo. Poi la campagna si sposterà in giro per
l’Italia con l’obiettivo di dimostrare che la scissione (ammesso che
ci sia) non coinvolgerà più di tanto la base del partito. I
fedelissimi di Renzi del resto mettono le mani avanti: «In vista delle
amministrative siano noi gli unici a poter dare il simbolo del Pd a
chi si vuole candidare». Chi esce dovrà correre con altre insegne.

LA COSTELLAZIONE DI FORZE CHE FA BRINDARE I NEMICI
Il Pd si spacca, con Matteo Renzi e i suoi alleati di qua, la sinistra
interna di là. Manca solo l’ufficializzazione della scissione. A nulla
è servito discutere soprattutto di princìpi, con l’accento sulla
seconda “i”, nell’assemblea del PD all’Hotel Parco dei Principi, dove
le sale si chiamano Ruspoli, Torlonia, Colonna e via romanamente
nobilando. Non hanno sortito effetti gli appelli all’unità che gli
esponenti della maggioranza del partito hanno ripetuto usando ogni
strumento retorico. Non è bastata la mediazione tentata dal ministro
Andrea Orlando che ha proposto un dibattito ampio e condiviso
attraverso la versione light della “conferenza programmatica” che la
sinistra voleva a tutti i costi prima del congresso. L’idea è sembrata
acquietare Michele Emiliano, che sabato aveva infiammato il Teatro
Vittoria appropriandosi della leadership degli scissionisti scippata a
Enrico Rossi e Roberto Speranza.

Con evidente sforzo, il sanguigno
governatore pugliese ha moderato i toni e s’è detto disponibile a
fermare la corsa verso il baratro delle due componenti del Pd, che
Gianni Cuperlo aveva precedentemente paragonato alla scena più nota di
“Gioventù bruciata”. La frenata sarebbe arrivata - ha chiarito
Emiliano - soltanto nel caso si fosse palesato un segno da parte di
Renzi. Un segno non meglio specificato che comunque l’ex sindaco di
Firenze ha giudicato un inaccettabile ricatto. Il comunicato di
Emiliano, Rossi e Speranza che in serata ha di fatto annunciato la
rottura, attribuendola a Renzi, stride con i princìpi e le emozioni
che hanno affollato una giornata lunghissima. In un saggio di
democrazia partecipata e senza infingimenti, la gran parte dei
contributi è stata informata a un tono elevato, irrintracciabile nella
narrazione della politica dei talk show sbrigativi e isterici.
Nell’intervento introduttivo il segretario dimissionario ha lanciato
«rispetto» come parola-chiave, per significare che all’interno del
partito si può discutere e litigare con asprezza, ma si deve sempre
trovare una sintesi tra pari.

L’ex segretario Guglielmo Epifani -
critico con la gestione renziana del governo e del partito - ha
aggiunto la parola «orgoglio» perché la consapevolezza della propria
storia consente di affrontare il presente e i suoi problemi fino al
punto, per rivendicarlo, di andar via sbattendo la porta. Il fondatore
del Pd, Walter Veltroni, ha puntato su «sofferenza» come unico
sostantivo che sa descrivere quanto sta accadendo in un partito che
viene da quattro anni di enormi successi e di cocenti sconfitte e da
tre mesi di profonde divisioni post-referendarie. Applausi e occhi
lucidi. Dietro le citazioni dotte e le folate passionali, i
ragionamenti hanno ruotato intorno a quattro interrogativi che per
chiarezza bisogna sintetizzare brutalmente: sono perdenti le ragioni
che tengono insieme le diverse anime del Partito Democratico rispetto
a quelle che portano alla sua frantumazione, chiudendo così quasi un
quarto di secolo di speranze? Esiste una motivazione politicamente
comprensibile dell’eventuale scissione? La maggioranza può andare al
congresso a ritmi forzati?

La minoranza può imporre un percorso
rallentato per cuocere a fuoco lento il segretario dimissionario?
Dall’assemblea, all’unisono, quattro no. Ma la sensazione è che,
nonostante l’intervento apparentemente conciliante di Emiliano, il
dado fosse già stato tratto. Domani la direzione definirà il percorso
verso il congresso, da chiudere prima delle amministrative di giugno.
Se Emiliano e compagni confermeranno l’addio, Renzi potrebbe non avere
avversari per la segreteria. L’epilogo di ieri è tuttavia una
sconfitta anche per lui. Perché fallisce il tentativo, durato quasi
dieci anni, di creare di una solida forza di centrosinistra dove far
convivere diverse voci e posizioni. Perché a sinistra si riforma una
costellazione di forze che difficilmente, a breve, potranno dialogare
con il Pd. Perché ieri sera hanno brindato Grillo, Di Maio, Salvini,
perfino Brunetta. @claudiogiua

Rossi e Bersani: «La verità è che hanno alzato un muro»
Senza ricucitura inizierà l’uscita dai gruppi parlamentari
Riflessione di 48 ore per scongiurare “l’addio” al partito
di Gabriele Rizzardi

ROMA All’assemblea nazionale del Pd Matteo Renzi non cambia linea e la
minoranza dem annuncia la scissione, precisando che la
«responsabilità» è del segretario. Il congresso si farà ma i tre ormai
ex sfidanti di Renzi, Roberto Speranza, Michele Emiliano e Enrico
Rossi non dovrebbero essere della partita. Il condizionale è d’obbligo
perché c’è ancora qualche ora per tentare una ricucitura. Emiliano,
Rossi e Speranza danno 48 ore a Renzi per appurare se è disposto a
fare una «mossa politica vera» per scongiurare la scissione. Se così
non sarà, si tireranno fuori dal percorso congressuale.

E quello sarà
il segnale: via all’uscita dai gruppi parlamentari e alla costituente
di un nuovo partito della sinistra. Martedì in direzione si darà il
via alla commissione congresso. Entreranno esponenti della minoranza?
Al momento è escluso. Quel che è certo è che quella di ieri è stata
una giornata lunghissima, vissuta sull’orlo della spaccatura, che però
a metà pomeriggio si chiude con la minoranza scissionista divisa per
l'inattesa apertura di Michele Emiliano che per qualche ora diventa
mediatore e che a Renzi dice: «Mi fido di lui». Il presidente della
Regione Puglia propone una linea meno dura rispetto a quella di Rossi
e Speranza. «L’unità è a portata di mano», ha detto Emiliano facendo
un passo indietro e auspicando una «strada condivisibile per tutti». E
ancora: «Rimanere insieme è a portata di mano. È una questione legata
a piccoli meccanismi, mi pare. Io sto provando nei limiti delle mie
possibilità, a fare un passo indietro che consenta di uscire tutti di
qui con l’orgoglio di appartenere a questo partito».

Il governatore,
insomma, si appella a Renzi i. Emiliano parla a titolo personale? «Ha
parlato per tutti» taglia corto il bersaniano Davide Zoggia. Ma anche
l’ultimo tentativo cade nel vuoto e poco dopo la conclusione
dell’assemblea Emiliano, Rossi e Speranza firmano una nota congiunta
che di fatto annuncia la rottura: «Anche oggi nei nostri interventi in
assemblea c’è stato un ennesimo generoso tentativo unitario. È
purtroppo caduto nel nulla. Abbiamo atteso invano un’assunzione delle
questioni politiche che erano state poste, non solo da noi, ma anche
in altri interventi di esponenti della maggioranza del partito. La
replica finale non è neanche stata fatta. È ormai chiaro che è Renzi
ad aver scelto la strada della scissione assumendosi così una
responsabilità gravissima». Ma l’attacco più duro arriva da Pier Luigi
Bersani. «Siamo a un punto delicato. Una parte di noi pensa che se va
avanti così il Pd va a sbattere.

Non vogliamo mandare a casa Renzi per
forza. Stiamo dicendo che vogliamo discutere di una correzione di
rotta. Renzi ha alzato un muro. Ma se si va avanti così, non sarà
possibile aprire una discussione» dice l’ex segretario, ospite di “In
mezz’ora”, che aggiunge : «Sono di sinistra e non sopporto di vedere
un livello di disuguaglianza così aberrante». Al coro si aggiunge il
governatore della Toscana Enrico Rossi: «Ci hanno bastonato e dicono
di soffrire loro... La verità è che hanno alzato un muro. Tutti, anche
Veltroni e Fassino. Sia nel metodo che nella forma. Tutti interessati
a difendere Renzi. Per noi la strada, invece, è diversa, è un’altra.
Sono maturi i tempi per formare una nuova area». A quando un nuovo
partito? «I tempi sono quelli per la costruzione di una nuova forza
con quei cittadini che non considerano più a sinistra il Pd» affonda
Rossi. A Renzi non devono esser piaciute le parole di Guglielmo
Epifani, che ha condannato l’idea di tirare dritto: «Mi sembra un
errore, un segretario deve avere la capacità di guardarsi dentro con
la comunità che rappresenta e cercare di superare le difficoltà. Se
questo viene meno, è chiaro che per molti si aprirà una riflessione
che poi porterà a una scelta».


Oggi De Vincenti a Cagliari per il Patto Sardegna, venerdì a Roma il
“tavolo dei tavoli” Giunta, cinque giorni decisivi
Due rilevanti vertici col governo: e in mezzo forse il rimpasto

La poesia delle cose trovate per caso: fino a venerdì nessuno in
Regione si aspettava un incontro con il presidente del Consiglio, e
poi così a breve, senza preavviso. Ci si preparava semmai a ricevere
il ministro De Vincenti, che oggi a Villa Devoto discuterà
dell'attuazione del Patto per la Sardegna.

Invece alla fine l'inatteso blitz di Paolo Gentiloni a Cagliari,
sabato mattina, ha prodotto qualcosa di buono. Nato per celebrare col
Comune di Cagliari la firma dell'intesa per le periferie, ha permesso
al governatore Francesco Pigliaru di sottolineare alcuni nodi della
vertenza con lo Stato. Gentiloni non aveva soluzioni in tasca e
neppure sogni da spacciare come risultati tangibili. Però ha capito la
necessità, per l'Isola, di stringere: dai tavoli di trattativa ai
fatti. La prima conseguenza materiale, a dire il vero, sarà un
ulteriore tavolo. Ma riassuntivo, per così dire. Venerdì a Palazzo
Chigi si terrà una riunione tecnica dedicata a tutte le questioni in
campo.

IL METODO Il premier ha accolto la richiesta di Pigliaru di mettere
insieme un referente del governo per ciascun tema, ed esaminare i nodi
da sciogliere. Sarà il tavolo dei tavoli, in pratica. La Regione
parteciperà con il capo di gabinetto della presidenza, Filippo Spanu,
e i dirigenti delle aree interessate. Ci si aspetta che questa mossa
acceleri alcune delle pratiche: il governatore ha insistito molto, tra
l'altro, sul ridimensionamento delle servitù militari, dopo che già la
scorsa estate aveva avuto uno scontro col ministero della Difesa
perché la lunga trattativa non produce niente di concreto, al netto di
tutte le dichiarazioni di disponibilità.

Lo sblocco dei cantieri alla Maddalena e il rilancio del progetto
Eni-Matrica per la chimica verde sono invece i temi su cui Gentiloni
ha dato più speranze. Quanto alla vertenza entrate-accantonamenti, più
delicata perché va superata la probabile ostilità del ministero
dell'Economia, il premier ha comunque garantito una sorta di sostegno
politico alla trattativa tra il sottosegretario Bressa e il
vicepresidente della Regione Raffaele Paci: di più, per ora, non si
poteva chiedere.

DOPPIO VERTICE Il tavolo dei tavoli di venerdì chiuderà una settimana
politica decisiva, che si apre oggi, alle 10, con la riunione a Villa
Devoto con Claudio De Vincenti. Il ministro della Coesione
territoriale arriva nella veste di referente del governo per
l'attuazione del Patto per la Sardegna, firmato il 29 luglio scorso a
Sassari da Pigliaru con l'allora premier Matteo Renzi.
De Vincenti guiderà la visita del Comitato di indirizzo e di controllo
per la gestione del Patto, organismo creato - in Sardegna come in
tutte le altre regioni del Sud firmatarie di analoghe intese - per
seguire passo la realizzazione degli interventi programmati. Del
Comitato fanno parte rappresentanti della Agenzia per la coesione
territoriale, del Dipartimento per le politiche di coesione e del
Dipartimento per la programmazione ed il coordinamento della politica
economica. La Regione sarda sarà rappresentata dal direttore generale
della presidenza, Alessandro De Martini.

IL RIMPASTO E può essere la settimana decisiva anche per la Giunta:
alcuni segnali dicono che il rimpasto è davvero imminente, sempre che
il caos nel Pd nazionale non fermi tutto di nuovo. Non sarebbe un
rimescolamento totale degli assessorati, ma neppure la semplice
sostituzione dei due dimissionari (Gianmario Demuro ed Elisabetta
Falchi, già titolari degli Affari generali e dell'Agricoltura). Di
certo ci sono altri assessori destinati a lasciare il posto.
Tra i nodi ancora da risolvere, il rapporto col gruppo ex Sel (con
l'area Uras-Agus che difende l'assessora alla Cultura Claudia Firino
mentre gli altri tre consiglieri regionali ne chiedono le dimissioni),
e i posti da assegnare alle forze minori della coalizione, attualmente
rappresentate in Giunta da Maria Grazia Piras (Industria) e Francesco
Morandi (Turismo). Giuseppe Meloni


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Federico Marini
skype: federico1970ca


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