lunedì 12 marzo 2018

Rassegna stampa 12 Marzo 2018


La Nuova

Nei dem la resa dei conti sabato l'addio di Cucca


Il Pd col fiato corto e retrocesso a terza forza in campo, oggi dovrà spalancare le finestre per far entrare aria nuova nelle stanze. Questo pomeriggio, a Roma, potrebbe cominciare Matteo Renzi, nella prima direzione nazionale dopo la scoppola elettorale. Sabato mattina dovrebbe essere invece la volta di Giuseppe Luigi Cucca, in quella regionale, convocata a Oristano. Dove però le dimissioni potrebbero arrivare solo alla fine di un dibattito annunciato molto caldo e zeppo di personalismi.

Cercansi giovani. Il rinnovamento è diventato una necessità. Se il Pd nazionale è andato male, quello sardo peggio, catapultato nell'inferno del 15 per cento e persino ben 4 punti sotto la media italiana. Logorato da dieci anni di duelli, il cambiamento generazionale è un altro degli obblighi che ha, per rimanere attaccato alla realtà. Una realtà ormai in mano ai trentenni, vedi Di Maio dei Cinque stelle, o al massimo ai quarantenni e poco più, come Salvini della Lega. Invece il Pd isolano, dal 2007 a oggi, ha sempre guardato verso l'alto, in senso anagrafico, e concesso gran poco ai giovani.

Quando, nel 2007, Antonello Cabras fu eletto segretario aveva 58 anni, oggi a 69 è ancora a capo di una delle tre correnti sare. È quella dei popopolari-riformisti, fondata insieme all'ex sottosegretario Paolo Fadda (1950). Quando, nel 2008, Francesca Barracciu, salì al vertice del partito aveva 42 anni: sembrava la svolta, ma fu così: il suo regno durò appena sei mesi. Nel 2009 un altro quarantenne, Silvio Lai, fu chiamato a salvare un Pd anche allora in affanno, per chiudere 5 anni dopo e candidarsi al Parlamento. Poi è stata la volta di Renato Soru: 57 anni quando fu eletto, nel 2014, 59 nel giorno delle tribolate dimissioni. Fino a Giuseppe Luigi Cucca, classe 1957 come l'europarlamentare: 60 anni appena compiuti per la sua prima volta da segretario, a metà della scorsa estate, e dopo neanche dodici mesi starebbe per lasciare.

Insomma, mai il Pd sardo, dal 2007 in poi, ha avuto un segretario sotto i quarant'anni. Mentre oggi avrebbe bisogno di un trentenne dalla forte passione per uscire dalla crisi in cui è finito o meglio s'è cacciato. Ma di quella classe anagrafica sono in pochi a girare nel partito e anche gli aspiranti per guidare la rinascita sono ormai vicini o hanno raggiunto i quaranta, come Pietro Morittu, attuale vicesegretario, Davide Burchi, sindaco di Lanusei, Giuseppe Frau, che dalla segreteria si è dimesso giorni fa, o Dolores Lai, nello staff del presidente del Consiglio regionale Gianfranco Ganau.

Farsi largo. Se la generazione degli aspiranti finora è stata obbligata dai capibastone a un lungo apprendistato, qualche colpa ce l'ha di suo. Questa: ha sempre aspettato che altri, quelli davanti, si facessero da parte mentre mai nel Pd la generosità è stata una delle virtù. In altre parole, esclusi pochi casi, anche il gruppo degli ormai ex trentenni non è riuscito a coalizzarsi in questi anni.

Dovevano fare fronte unico, come lo fu quello dei "giovani turchi" nella Dc degli anni cinquanta. Invece hanno preferito restare sotto l'ombrello delle correnti storiche, molto più sicuro, ma fra non molto potrebbero rischiare di rimanere degli aspiranti a vita, nonostante si siano tolti qualche soddisfazione nei Comuni. Quindi, la vera novità, nella direzione regionale di sabato, potrebbe essere solo questa: un bel gruppo di giovani o quasi giovani capace innanzitutto di spezzare le catene imposte dai soliti gruppi e gruppetti, poi coraggioso nel presentarsi come forza trasversale e infine deciso nel pretendere: «Fatevi da parte, ora tocca a noi».

Accadrà o no? È possibile ma non è detto che i giovani, ancora prima della rivoluzione, in questi giorni riescano a trovare un accordo fra loro per scalzare le vecchie facce. Il perché di tanto scetticismo è presto detto: da troppo tempo i Dem sardi sono prigionieri delle correnti e gran parte della nuova generazione sembra essere destinata a fare la stessa fine. Sabato, a Oristano, se il Pd vuole rinascere deve sperare che i giovani trovino il coraggio necessario per organizzare una rivoluzione pacifica e che gli altri gliela lascino fare. (ua)

Silvio Lai: troppi errori, ora un Pd sardo
e la giunta sia più veloce e presente
di Luca Rojch

Con il coraggio del kamikaze ha accettato la missione impossibile.
Silvio Lai è uno dei pochi che ha detto sì alla candidatura
all'uninominale contro centrodestra e 5 Stelle. Sapeva che i sondaggi
davano il Pd in caduta libera. Sapeva che la sua era una missione
impossibile. Ci ha messo la faccia. Ora indica la via al Pd per
evitare il tracollo. Perché il Pd ha perso in modo così netto?«Abbiamo
perso nettamente, per una ripartenza economica troppo lenta e
impercettibile per i cittadini che, di fronte a una promessa illusoria
di benessere immediato hanno scelto questa possibilità».Cosa la
preoccupadi più?«La fragilità del sistema economico italiano. E le
accelerazioni delle vicende internazionali.

Trump impone i dazi su
acciaio e alluminio e uccide in culla la ripartenza di Alcoa. Dazi
europei sui jeans Levi's e sulle moto Harley contro dazi americani sui
prodotti alimentari italiani, a partire dal pecorino romano?
Perderebbero i più deboli». Come giudica il risultato
elettorale?«Siamo allo stallo. Ma non è colpa della legge elettorale
se ci sono tre poli e il premio di maggioranza troppo elevato è
dichiarato incostituzionale. Nessun sistema elettorale avrebbe dato un
risultato diverso. In questa legge elettorale il premio doveva
arrivare dal sistema dei collegi uninominali, ma con il paese spaccato
in due, nord contro sud, il premio non è bastato. Ha prodotto due
vincitori. O si va verso il presidenzialismo come in Francia, o il
sistema parlamentare, quando non ci sono maggioranze nette, risolve il
problema con gli accordi, come in Germania.Chi ha vinto si accordi per
le parti del programma compatibili. Più voti, più responsabilità».Cosa
deve fare il Pd?«La preoccupazione è per la prospettiva, davvero il
Movimento 5 Stelle è la sinistra del futuro?

A me pare che le sue
proposte si possano fare solo se si sta all'opposizione. Quando si
arriva al Governo i nodi emergono, sia sul piano dei costi che dei
comportamenti sociali. Per questo mi pare che lo spazio ci sia ancora
per una sinistra di governo che non sta dalla parte dei petrolieri, ma
dell'ambiente. E che tutela il lavoro e aiuta le aziende innovative,
che mantiene pubbliche la sanità, la scuola e l'università
finanziandole, che ha alto il valore dell'integrazione, e della
solidarietà tra generazioni, che a chi sta indietro dà dignità e non
solo assistenza».

E nell'isola?«In Sardegna si deve rigenerare la
sinistra. Avevamo una sinistra plurale e autonomista, quella che ha
vinto tutto dal 2010 al 2014, che aveva in sé lo spirito innovativo e
unitario dell'Ulivo, ma che guardava oltre i propri confini,
confrontandosi con i temi dell'indipendenza e della sovranità. A
quella sinistra serve la passione, non basta il calcolo del Pil che
cresce per dare speranza, non basta il freddo suono dei numeri, anche
quando aumenta l'occupazione, perché aumenta troppo poco per dare
sollievo, servono la carne e il sangue, il calore e la passione».

Molti
mettono tra le cause della sconfitta anche la giunta regionale. È
così?«La giunta Pigliaru? Non si può attribuirle colpe sul risultato,
ma non nascondiamo la testa sotto la sabbia. È una giunta onesta, ma
l'onestà è una precondizione, non basta per risolvere i problemi. A
volte forse è stata rallentata dai tecnicismi e dalla burocrazia. Ma
alle richieste degli allevatori che aspettano i contributi del 2015 o
del 2016 non si può rispondere solo che è colpa della burocrazia. O
dopo 4 anni ai cittadini che devono ancora aspettare per liste
d'attesa sanitarie più brevi. O lasciare i sindaci in fila per i
finanziamenti ai comuni o far attendere le imprese 3 anni per un bando
europeo. Per superare questa paralisi avevamo chiesto fiducia, non per
assecondare lentezze esistenti».Secondo lei la Regione in questi mesi
poteva fare di più?«La condizione economica estrema in cui ci troviamo
richiede decisioni rapide. Si dovevano anticipare le riforme, passare
il tempo a spiegarle tra la gente, e adeguarle. Quando le riforme si
fanno nella seconda parte della legislatura è troppo tardi per vederne
gli effetti positivi o correggere quelli negativi. Emergono solo le
resistenze e i sacrifici di chi deve cambiare senza vedere i benefici
per i cittadini».

Ma ci sono errori anche nella coalizione di
centrosinistra?«C'è stata diffidenza nei confronti della politica e
timore del confronto. In questi anni la gestione politica di
coalizione si è ridotta alla gestione della maggioranza consiliare
attraverso pochi capigruppo pur di mandare avanti la legislatura,
scarsi i confronti con i segretari o con i parlamentari, regionali e
nazionali. Le voci di dissenso accantonate. Si è smarrito il lavoro
fatto per costruire la coalizione di centrosinistra autonomista che
aveva vinto le elezioni, si è sintetizzata la giunta a un monocolore
Pd e la coalizione, dopo averne lasciato andare 4, si è ridotta alla
presenza di forze politiche poi assenti da elezioni importanti come
queste».

Cosa si deve fare?«La partita regionale non è persa, ogni voto
è a sé, ma serve una rigenerazione di un grande centrosinistra, un
nuovo patto con le forze autonomiste e indipendentiste che non hanno a
che fare con il razzismo e l'antieuropeismo. Serve il sogno di una
regione più forte e solida, che stia meno a Cagliari e più nelle
campagne e con i sindaci. Serve uno spirito nuovo in una Giunta che
porti a compimento rapidamente le partite aperte, affronti problemi
non gestiti e spazzi via dal tavolo gli errori fatti, sono pochi, ma
grandi come una casa. Serve combattere con risposte vere e immediate
le promesse che illudono. Non possiamo più perdere tempo prezioso. Se
di questa legislatura non vogliamo consegnare alla storia un giudizio
peggiore di quello reale, come sta accadendo per Renzi, occorre un
passo nuovo. Serve la disponibilità di Pigliaru a farlo e a non
chiudersi come in un castello in cui si nascondono i problemi o si
minimizzano come fossero solo dei partiti. Non sono critiche
personali. In questi anni il Pd sardo non è stato all'altezza della
sua funzione, non ha tenuto insieme la coalizione, si è paralizzato
nella gestione lenta del suo equilibrio interno, perdendo anni
importanti e facendo errori gravissimi». E il compito del Pd?«Servono
un rapido esame della situazione e decisioni conseguenti. Si deve
scegliere un gruppo dirigente che si sacrifichi in questo anno per
tentare di raddrizzare la barca, sostenere il nuovo passo della Giunta
e ricostituire il centrosinistra regionale.

E il Pd sardo deve fare il
passo sospeso nel 2014, per una nuova formazione politica, sarda,
popolare, autonomista e di sinistra federata ma distinta con la
sinistra nazionale. Ora si deve provare a recuperare il tempo perduto.
E in fretta. Altrimenti il centrosinistra si ridurrà nella prossima
legislatura regionale a 5-7 consiglieri, e non tutti del Pd, un Pd
condannato alla ininfluenza e alla inutilità, in un momento che per la
Sardegna potrebbe essere delicatissimo».

Orfini: «Se andiamo al governo con i 5 stelle per noi è la fine»
Emiliano: «Con 11 milioni di voti hanno il diritto di provare»
Pd, oggi la direzione Parte l'era post Renzi il partito alla conta
di Serenella Mattera

ROMALa lettera di dimissioni di Matteo Renzi. E la relazione del
vicesegretario Maurizio Martina, con al centro le parole d'ordine
«unità» e «collegialità». Così la direzione del Pd ufficializzerà oggi
la fine dell'era Renzi. Il leader uscente potrebbe non esserci e
parlare tra un mese in assemblea, ma fino all'u1ltimo si riserva di
cambiare idea. Di sicuro non spariranno i renziani: il Pd, dice Matteo
Orfini, non si «ricostruisce senza il contributo di Renzi». Ma si
moltiplicano i rumors su un possibile nuovo partito di Renzi, «alla
Macron». In particolare si parla di un lavorio in corso soprattutto
sul fronte milanese.I suoi per ora smentiscono: non sarà più
segretario, ma non molla il Pd.

La reggenza passa intanto a Martina,
che in direzione annuncerà una gestione collegiale della fase di
transizione. «Spetta a chi ha vinto la responsabilità del governo»,
dovrebbe dire Martina, ponendo il Pd all'opposizione. E la direzione
dovrebbe approvare a stragrande maggioranza le sue parole, forse
tradotte in un documento finale. Il futuro riserva però tante
incognite: lo stesso Orfini non chiude preventivamente a un eventuale
governo del presidente sostenuto da tutti i partiti. Il tentativo è
per ora evitare conte, sia domani in direzione sia la prossima
settimana, quando si dovranno eleggere i capigruppo.

Già si ragiona di
una presidenza renziana e una di mediazione (si citano Guerini e
Rosato alla Camera, Bellanova e Parrini o anche Pinotti al Senato). E
Matteo Orfini tira il Pd fuori anche dalle presidenze delle Camere,
definendo «legittimo» che vadano a M5s e Lega, con una soluzione che
eviterebbe dispute interne. Ma i prossimi passaggi non sono scontati e
tra i Dem c'è chi non reputa chiusi i giochi neanche per la presidenza
delle Camere: il primo ostacolo - ammettono però - è che il Pd
dovrebbe essere tutto unito per trattare.

Oggi si riparte da
dimissioni «vere» di Renzi e da una analisi della sconfitta che
Martina promette non assolutoria. Poi alla metà di aprile dovrebbe
tenersi l'assemblea del partito. In quella sede si dovrà scegliere se
eleggere un nuovo segretario o convocare il congresso. Molti nel
partito (tranne qualche pasdaran renziano) sembrano concordare
sull'inopportunità di primarie subito. Dunque si dovrebbe cercare un
segretario di unità in vista del congresso, da tenersi nel 2019 o,
come preferirebbero i renziani, nel 2021. In questo caso la scelta
potrebbe ricadere su una figura come Graziano Delrio, che per ora si
tira fuori, mentre avrebbero meno chance nomi come Nicola Zingaretti
(che unisce un ampio fronte di sinistra) o Carlo Calenda, vicino a
Paolo Gentiloni e sempre più attivo.

Ma la resa dei conti può ancora
riservare sorprese, perché gli animi sono accesi. Non si cerchi in
Renzi il «capro espiatorio», avverte Orfini, con «abiure» per
«cancellare responsabilità» della sconfitta che sono di tutti, incluso
chi «ha fatto il ministro per cinque anni» (un riferimento a
Franceschini?). In un clima così incerto, la direzione si annuncia
molto partecipata (potrebbe esserci anche Walter Veltroni) e le
diverse aree serrano le truppe. Orfini ribadisce che sostenere un
governo M5s sarebbe «la fine del Pd». Ma Emiliano spinge per un'intesa
con i Cinque stelle e i suoi avanzano il sospetto che alla fine un
accordo si faccia con il centrodestra: «Renzi vuole trasformare il Pd
in una bad company», attacca Dario Ginefra.

Unione Sarda

Cherchi: ignorata la disuguaglianza crescente. Ora Pigliaru prenda la tessera
«Pd, persi di vista i lavoratori Renzi? Anche lui è populista»

Ognuno ha il suo oracolo personale, quello che d'improvviso ti fa
capire ciò che sta accadendo. Per Tore Cherchi fu un tassista
incontrato a Düsseldorf, tanti anni fa: «Aveva sempre votato Spd, ma
si sentiva tradito perché Schroeder stava facendo le cose che voleva
la Cdu». Qualche lustro più tardi, la sinistra ha perso il filo in
tutta Europa. E alla fine anche in Italia: «Al governo abbiamo fatto
cose buone», riflette l'esponente del Pd dopo la sconfitta elettorale,
«ma ha pesato il vuoto sul tema della crescita delle disuguaglianze».
Diciotto anni in Parlamento, poi sindaco di Carbonia e presidente
della Provincia Sulcis, Cherchi è tra le figure più autorevoli che il
Pd ha ereditato dal Pci. E oggi, di fronte a una sconfitta epocale,
non rinuncia a guardarla da sinistra: «Il nodo della ridistribuzione
del reddito non è marginale. Dopo le grandi conquiste dei lavoratori,
gli ultimi 30 anni hanno segnato un arretramento».

Arturo Parisi parla di rivolta delle periferie. Concorda?
«È proprio così. Noi abbiamo preferito le frequentazioni con la parte
alta della piramide sociale: Marchionne, il finanziere Serra...»

Non sono certo iniziate con Renzi. Pensi ai capitani coraggiosi di D'Alema.
«Certo. È un processo lungo che ci ha portato a perdere contatto con
la nostra base. Renzi però ha aggiunto un suo populismo dall'alto».

Che cosa intende dire?
«Il referendum costituzionale si basava sul taglio dei politici e
altri messaggi populisti. La stessa rottamazione non è molto diversa
dal “vaffa” di Grillo. Ma il populismo grillino è partito dal basso,
quello di Renzi no».

È davvero il populismo il male assoluto?
«Il filosofo Slavoj Zizek lo ritiene anche positivo, se serve a
ridiscutere l'ordine costituito. Lui usa poi una definizione che
descrive bene la fase attuale, il cosiddetto popolo delle vittime».

Chi sono le vittime?
«Quasi tutti. Secondo studi McKinsey, il 97% degli italiani sente di
aver peggiorato la condizione negli ultimi vent'anni. E in una società
liquida, in cui i partiti non sono punti di riferimento, il furore del
popolo delle vittime premia chi sembra capace di dargli voce».

Cioè il Movimento 5 Stelle.
«Per ora sì. Poi ovviamente quel popolo presenterà il conto, come con noi».
Ecco, ritorniamo a voi. La mutazione di cui parlava prima è ormai irreversibile?
«Spero di no. Ma serve un'inversione a 180 gradi. Il primo obiettivo
dev'essere rappresentare i lavoratori».

In concreto, significa magari rivedere il Jobs Act?
«Guardi, trovo impossibile che un partito di sinistra cancelli
l'articolo 18. In generale, il Jobs Act ha dato flessibilità senza le
politiche attive che dovrebbero accompagnare il lavoratore nei periodi
di transizione».

Ora come si riparte? Basta togliere di mezzo Renzi?
«Serve un'assunzione di responsabilità di tutto il gruppo dirigente, a
tutti i livelli. Renzi avrebbe dovuto dimettersi seriamente dopo la
sconfitta nel referendum».

Beh, rivinse le primarie.
«Sì, ma che valore ha avuto? In Sardegna Renzi perse il referendum col
73% e poi vinse le primarie con la stessa percentuale: non è la
certificazione del nostro scollamento dalla società?»

Cioè rinnega le primarie?
«In teoria è la via più democratica. Ma se il congresso è solo lo
scontro tra due persone, si salta ogni discussione politica. Diventa
un momento catartico che non risolve niente. Un'illusione».

Vale anche per la Sardegna? Il segretario regionale dovrebbe dimettersi?
«Io nel '92 mi dimisi da segretario del Pds per aver preso l'1% in
meno della media nazionale. Sul Pd sardo, la cosa più evidente è che,
dopo gli ultimi due congressi, non ha avuto né una politica né un
collante politico».

Colpa dei segretari?
«Colpa degli accordi interni che hanno creato maggioranze non basate
su posizioni politiche».

Maledette correnti.
«Il male non sono le correnti in sé, ma appunto il fatto che non si
distinguano su questioni politiche».

Condivide l'appello al ricambio generazionale?
«Io darei priorità ai contenuti. Ma è vero quel che ha detto
all'Unione Sarda il giovane Jacopo Fiori: il rinnovamento è stato
inquinato da selezioni fatte col criterio della fedeltà. Anche tra i
giovani. Forse la più grave mutazione del nostro Dna».

Nel crollo del Pd sardo ha pesato l'azione della Giunta?
«Scaricare le colpe sulla Giunta non ha senso. Ci sono difficoltà, ma
vedo un forte impegno del presidente Pigliaru; semmai credo che lui
dovrebbe assumere più consapevolezza politica. Dovrebbe fare come
Calenda e prendere la tessera del Pd».

Però sulle riforme ci sono dissensi, specie per la sanità.
«L'Asl unica in linea di principio è giusta, serve a liberare risorse
per migliorare i servizi. Il giudizio finale sarà su questi ultimi: se
per esempio la gente vedrà ridursi le liste d'attesa, la riforma avrà
avuto un senso».

Le Regionali 2019, per voi, sono comunque già perse?
«Ha ragione Prodi, non ci sono situazioni irreversibili: dal 25% del
Pd di Bersani siamo passati al 40 delle Europee, ora al 18. Ma se non
cambi qualcosa, non modifichi la traiettoria negativa».

E cosa si può cambiare?
«In questo anno bisogna concentrarsi sulla questione sociale e sul lavoro».

Nel Sulcis lei ha avuto e ha ruoli di rilievo. Nonostante le zone
franche urbane, il piano Sulcis, la svolta su Alcoa, avete perso.
Perché?
«Si era già dissipato un capitale di fiducia. Calenda ha fatto
benissimo perché ha inquadrato il Sulcis nel contesto industriale
nazionale, e nelle regole Ue. Un dirigente Alcoa mi ha detto: se
avessimo avuto queste misure non ce ne saremmo andati».
Resta il fatto che nelle urne tutto ciò non ha pagato.
«Anche perché non si vedono ancora gli effetti sull'occupazione. Parte
del Piano Sulcis è molto avanti, nessun altro sito ha investimenti
sulle bonifiche come Portovesme. Ma questo non crea molto lavoro».
Un governo M5S può ideare altri modelli di sviluppo?
«Non lo so, ma in democrazia bisogna rispettare il risultato
elettorale. Hanno il maggior consenso come forza politica omogenea, si
cimentino col governo».

In alleanza col Pd?
«No. Sarebbe trasformismo. Altro è valutare singole proposte in Parlamento».
E un appoggio esterno?
«Neppure».

In ogni caso, meglio Di Maio premier che Salvini?
«Di sicuro. Preferirei Gentiloni, ma con Salvini il distacco è sui
valori di fondo».
Giuseppe Meloni

Il deputato uscente
Gian Piero Scanu: «È un partito evaporato»

Nell'analisi della sconfitta c'è (e non poteva essere diversamente)
anche lui: Gian Piero Scanu, deputato uscente Pd non ricandidato,
forse nel suo momento di massima popolarità come presidente della
commissione d'inchiesta sull'uranio. «Per noi - ha spiegato il
segretario cittadino del partito Gianluca Corda - la mancata
candidatura del nostro parlamentare uscente al proporzionale è stato
un trauma. Forse ci siamo sentiti perdenti dall'inizio». La sua
mancata candidatura ha avuto un peso? «Non mi sentirei di escluderlo»,
dice Scanu.

«La sconfitta di Olbia, malgrado il grande impegno del candidato, ha
ragioni non dissimili dal crollo nel resto del Paese», commenta il
parlamentare uscente: «È una crisi che viene da lontano e le
avvisaglie, a livello locale, c'erano già dalle amministrative. C'è
una scarsa partecipazione popolare, la società civile non percepisce
il messaggio e non sente la passione. Il Pd è percepito come un
partito invecchiato. Era un partito pesante e, citando una bella
canzone di De Andrè, è evaporato in una nuvola ».

Il giudizio di Gian Piero Scanu è critico anche verso le ultime mosse
dei leader. «Giudico sbagliata l'ipotesi di una candidatura di
Zingaretti alle primarie, o si fa bene una cosa o l'altra», osserva:
«Così come ha fatto male Renzi a voler fare contemporaneamente il
premier e il segretario e non solo, e non tanto, per un formale
rispetto dello statuto. Sembra che non si impari mai dai numerosi
segnali del corpo sociale che non si sono voluti o saputi cogliere». (
c.d.r. )

Olbia - Addio al monopolio di Forza Italia, nel Pd si dimette il segretario
Una sconfitta per due Piccinnu (M5S): «Nizzi, la love story è finita»

Da una parte si prova a raccogliere i cocci dopo una disfatta
annunciata, dall'altra ci si consola nell'aver perso per un soffio una
competizione che molti davano per vinta. Il Pd attraversa una fase
lacrime e sangue con l'annuncio delle dimissioni da parte del
segretario dell'Unione cittadina Gianluca Corda. Dimissioni che
saranno quasi certamente respinte dall'assemblea ma che rappresentano
un segnale.

Nel centrodestra, invece, la sconfitta elettorale (nel
collegio e in città) non sembra avere ripercussioni sugli umori
all'interno della maggioranza guidata da Settimo Nizzi. Tutti però
pensano alle regionali e a come contrastare l'armata dei Cinquestelle.
Una cosa è certa: la roccaforte azzurra ora è stellata.
LUNA DI MIELE «Troppo facile trincerarsi nelle analisi dietro il trend
nazionale», osserva Teresa Piccinnu , consigliera comunale
Cinquestelle: «Ci sono certamente motivazioni generali che hanno
spinto i cittadini a credere nel nostro progetto. Ma una cosa è certa,
la love story del sindaco con la città è finita. Nizzi ha dato una
rinfrescata alla città ma non ha mantenuto le sue promesse e la
vicenda dell'intitolazione della scuola simbolo dell'alluvione alla
sceicca del Qatar, ha causato un'ulteriore frattura».

IL VENTO GRILLINO Di opinione opposta il coordinatore di Forza Italia
Pietro Carzedda : «Non siamo certamente contenti di avere perso la
sfida ma i numeri dicono che rispetto alle ultime poltiche il
centrodestra è cresciuto. Il Movimento 5stelle ha raccolto i voti che
ha perso il Pd e anche in città abbiamo risentito di questa ondata
populista difficile da contrastare.

Non si può fermare il vento con le
mani». Ad essere cambiata è la geografia del centrodestra rispetto
alle amministrative. La Lega oggi conta il 10 per cento mentre Noi con
Salvini, col suo 0,98, non era riuscita ad esprimere un consigliere.
Fratelli d'Italia, oggi sfiora il 4 per cento, e alle amministrative
con il suo simbolo era in un'altra coalizione. «Siamo molto contenti
del risultato del centrodestra», commentaMarco Buioni , coordinatore
cittadino do Fdi: «Quando ho preso in mano la situazione, ad ottobre,
era un disastro, avevamo solo cinque tesserati. Pian piano ci siamo
rimessi in piedi. Noi al momento non facciamo parte di questa
amministrazione ma a livello nazionale siamo nella stessa coalizione.
Nei prossimi giorni penso di andare a parlare col sindaco per un
confronto sui temi».

PAROLE D'ORDINE Quella del Pd cittadino è invece una sconfitta
annunciata e che arriva da lontano. Il 13 per cento di oggi, con un
candidato all'uninominale completamente nuovo, è forse meno doloroso
del 15 alle ultime amministrative con un candidato sindaco e cinque
anni di governo della città alle spalle. Gianluca Corda guida il
partito cittadino da pochi mesi, era stata una scelta di rinnovamento
per superare la logica de due Pd.

«Presenterò le dimissioni
all'assemblea perché credo che anche a livello locale si debba dare un
segnale di rinnovamento - spiega - dobbiamo capire cosa chiedono i
cittadini, soprattutto i giovani, e imparare ad ascoltarli. Le parole
d'ordine, se vogliamo uscire da questa situazione, sono ascolto,
partecipazione e rinnovamento».
Caterina De Roberto


Camere: Lega e M5S prenotano le presidenze
Salvini: vanno ai vincitori. Orfini: ok, fate pure il governo

MILANO È un discorso da premier quello di Matteo Salvini alla Scuola
di formazione politica della Lega: «Farò tutto quello che è umanamente
possibile per rispettare il mandato che gli italiani ci hanno dato,
ovvero di andare a fare il presidente del Consiglio, ma senza scendere
a patti e rinnegare la nostra Bibbia che è il programma». E poi: «Ho
letto ipotesi astruse di governissimi, di governini, di passi di lato.
C'è un programma scelto dagli italiani: quello del centrodestra. Si
può discutere e si può arricchire ma da lì si parte».

Il leader del Carroccio lavora a «una maggioranza di governo che aiuti
a cancellare la legge Fornero, a diminuire le tasse e ad arginare
un'immigrazione senza controllo». Un progetto più complesso che capire
come attribuire le presidenze di Camera e Senato: «Fare il contrario
di quello che gli italiani hanno scelto la settimana scorsa sarebbe
una follia. Ci sono due forze politiche che hanno vinto le
elezioni...».

IL PD E GLI STALKER Su questo - solo su questo - il leader leghista si
ritrova accanto il presidente del Pd: «Sarebbe legittimo e forse
ragionevole», dice Matteo Orfini a “In mezz'ora in più” su Raitre, se
Carroccio e pentastellati si dividessero le presidenze delle Camere.
Anzi, dovrebbero proprio governare insieme: in fondo «il governo M5S e
Lega c'è già. In Parlamento hanno votato sempre insieme». Chi insiste
per un sospegno Dem ai 5 Stelle, invece, è solo «uno stalker».

DI MAIO DEGASPERIANO «Politica vuol dire realizzare», ricorda intanto
Luigi Di Maio citando De Gasperi. E se non bastasse lo statista
democristiano, il capo del M5S sul blog delle stelle identifica
l'interesse dei cittadini col “bene comune” citato dalla dottrina
sociale della Chiesa. Una doppia sollecitazione ai moderati da parte
di un aspirante premier che anche ieri invitava «tutti» al confronto
«per far nascere il primo governo della Terza Repubblica» e ammoniva:
«I cittadini ci guardano e pretendono il massimo dalle persone che
hanno eletto in Parlamento. Tutto il M5S e io in prima persona non
abbiamo alcuna intenzione di deluderli e faremo tutto il possibile per
rispettare il mandato che ci hanno affidato. Mi auguro che tutte le
forze politiche abbiano coscienza delle aspettative degli italiani:
abbiamo bisogno di un governo al servizio della gente».

Bacini in ripresa nell'Isola «Ma l'allarme non è superato»
Raccolti in due mesi 153 milioni di metri cubi. Posada: ancora acqua in mare

Dalla secca al troppo pieno, nel giro di due mesi: a gennaio l'invaso
di Maccheronis, tra Torpè e Posada, era al 14 per cento. Ora il
livello ha quasi superato la capienza massima e l'acqua finisce in
mare: «La diga è al cento per cento, purtroppo non può contenere di
più», spiega l'amministratore unico dell'Enas Giovanni Sistu, col tono
di chi ha ripetuto la storiella mille volte.

Per risolvere il problema
bisognerebbe costruire un nuovo lago artificiale a monte di quello già
esistente e per ora l'obiettivo è molto lontano. Quindi in questi
giorni milioni di metri cubi vengono buttati via, proprio nella zona
della Sardegna che avrebbe più bisogno di riserve idriche. Abbanoa,
per dire, pensa di affittare dei dissalatori mobili per garantire
l'acqua nelle località turistiche durante la prossima estate.
IL RECUPERO Le ultime settimane, comunque, sono state positive: in
sessanta giorni negli invasi della Sardegna sono arrivati circa 153
milioni di metri cubi in più (si è passati da 795 a 948 milioni) e le
previsioni parlano di nuove perturbazioni, che porteranno altra
pioggia e faranno salire ulteriormente il livello.

Non si può
sorridere troppo, però: «Un anno fa in tutta l'Isola avevamo oltre un
miliardo di metri cubi nei bacini. La situazione oggi è sicuramente
migliorata rispetto alla fine del 2017, ma non possiamo ancora dire
che l'emergenza sia superata», avverte Sistu.

PIANO D'EMERGENZA I prossimi giorni saranno decisivi. Entro la fine
del mese dovrà essere definito un primo piano per la stagione irrigua.
Solo in quel momento si capirà se ci sarà bisogno di un programma
drastico di restrizioni - che in alcune località sono sempre in vigore
- o no. Appena un mese fa la Regione stava valutando se dichiarare lo
stato di calamità naturale. L'ipotesi c'è sempre, anche se è un po'
più lontana. Tra febbraio e marzo le spie rosse che erano accese negli
invasi di Maccheronis, Olai e Govossai si sono spente: ora il livello
suggerisce un codice “arancione”, cioè pericolo, ma non emergenza.
Restano invece critiche le condizioni del Sulcis-Iglesiente: Medau
Zirmilis, Punta Gennarta e Monte Pranu sono sempre a secco.

PARATIE APERTE Con queste premesse sembra folle che l'acqua di Posada
e Torpè finisca in mare. Una sorte che in questi giorni sembrava
condivisa con la diga del Govossai, ma Abbanoa - che gestisce
direttamente l'invaso - ha precisato: «In questi giorni siamo
impegnati nel mantenimento del limite di sicurezza per la tenuta
statica della struttura nuorese. La risorsa in eccesso però non viene
sprecata o gettata in mare, viene invece dirottata verso l'invaso di
Gusana per un diverso utilizzo».

I LAGHI ARTIFICIALI In generale il livello delle dighe sarde ha avuto
un balzo: dal 45 per cento per cento di riempimento dell'inizio di
gennaio al 54 per cento di pochi giorni fa. Il lago artificiale del
Coghinas è passato dal 52 al 73 per cento. Anche la diga di Nuraghe
Arrubiu, sul Flumendosa (tra le più grandi della Sardegna) è arrivata
al 71 per cento della capienza, con oltre 187 milioni di metri cubi
nell'invaso. Il sistema di riserve nella zona nord occidentale è
uscito dall'emergenza. Cuga e Bidighinzu, che nelle scorse settimane
erano arrivati al fondo, si stanno lentamente risollevando.

I LAVORI Per dimenticare la siccità servirebbero poi alcune opere.
Come gli interventi per aumentare la capienza delle dighe (a
disposizione 115 milioni di euro), ma non si tratta di una
soluzione-lampo: per collaudarle bisognerebbe riempirle, dunque è
necessario aspettare ancora. È più vicina invece la realizzazione del
quarto lotto del collegamento che dovrebbe portare le acque del Tirso
e del Flumendosa fino a Carbonia e Iglesias. Data prevista per il
battesimo della condotta: 2020.
Michele Ruffi

La Nuova

L'ex ideologo grillino: il M5s ha perso la purezza

dopo il voto
di Giovanni Bua

«Chiunque avesse un po' di cuore nel 2013 non poteva che avvicinarsi
al Movimento 5 Stelle. Chiunque ha un po' di cervello nel 2018 non può
che tenersene lontano».Non è mai stato uno che le manda a dire Paolo
Becchi, filosofo e docente universitario genovese, innamorato del
primo Movimento di Grillo e Casaleggio, di cui fu uno degli ideologi.
E da cui uscì sbattendo la porta nel 2016.È saltato giù dal carro del
vincitore? «Sicuramente il movimento era in grande ascesa, ma stava
già iniziando il suo percorso di "normalizzazione" per me
assolutamente insopportabile.

Percorso che ha portato all'ultimo golpe
di Di Maio, che di fatto ha preso il comando, e che non lo lascerà
così facilmente».I risultati sembrano dargli ragione.«Devo dire che
non mi aspettavo un successo del genere, innegabile. Ma era difficile
prevedere un crollo di questa violenza del Pd e di Berlusconi. Più che
di vincitori in questa tornata elettorale è più interessante parlare
di sconfitti».Da chi iniziamo?«Da quello senza speranze: Berlusconi.
Ha esaurito le sette vite. Si è fatto fare le liste dalla badante e le
strategie politiche da un avvocato che ha perso tutte le sue cause. Un
disastro da cui non si rialzerà».

Il centrodestra però è la prima
coalizione.«Salvini è il centrodestra, non ha sbagliato un colpo. Ha
preso contatto con i territori, come qui in Sardegna col Psd'Az.
Ricucendo le fila del sovranismo, che non è materia del nord ma di
tutta Italia. Il suo è già un successo, ma è solo l'inizio. Forza
Italia non sopravviverà alla morte politica di Berlusconi. E quella
fetta di elettorato andrà alla nuova Lega, che io immagino federale e
nazionale».Parla da militante?«Sicuramente nella Lega ci sono parole
d'ordine chiare rispetto all'antieuropeismo e al sovranismo che erano
le stesse su cui all'inizio stavamo costruendo il M5S. Ora l'Europa
per Di Maio è diventata amica».

Il Pd invece?«I due sconfitti sono
Renzi e Berlusconi, e la loro legge elettorale pasticciata per rifare
un nuovo patto nel Nazareno. Gli italiani questo l'hanno capito, e li
hanno mandati a casa. Il Pd però, a differenza di Berlusconi, ha un
partito, delle dinamiche democratiche, un radicamento. Che, se si
libererà di Renzi e avrà l'intelligenza di sedersi all'opposizione,
gli permetteranno in un paio d'anni di riprendersi quei voti che hanno
gonfiato il risultato di Di Maio».

Pensa che sia un risultato
gonfiato?«Penso che il M5S abbia raggiunto il suo apice. E spero
davvero che trovino qualche sistema per governare un paio d'anni per
uscire da quel limbo di slogan e risposte vaghe che portano avanti da
tempo. Appena faranno una mossa, a destra o a sinistra, perderanno
pezzi enormi del loro elettorato. Hanno già comunque perso la purezza,
sono esattamente come gli altri. E forse un po' peggio».Come se ne
esce?«Se i partiti penseranno al loro bene personale non c'è nessun
motivo né per il Pd né per la Lega di accettare un'alleanza con il
M5s. E men che mai di fare un patto tra loro per escluderli e renderli
la vittima sacrificale. Penso che sia giusto che la Lega ambisca ad
avere la presidenza di una camera, e magari l'incarico per formare il
governo, ma non credo che Salvini abbia fretta di governare».

Rimane Di
Maio.«Che ha una gran voglia ma non ha i numeri. La mia idea, in
questo caso per il bene del Paese, è che rimanga Gentiloni, con un
governo di scopo che faccia una nuova legge elettorale, magari
ripescando il vecchio Mattarellum. E se ci vorranno sette o otto mesi
amen. La Germania ci ha messo sei mesi a fare la sua coalizione, la
Spagna ha rivotato».È venuto a Sassari chiamato da un movimento
civico, Sassari Libera, c'è ancora spazio per il civismo?«Io credo che
ogni comunità locale debba organizzarsi per governarsi da sola. La
forza civica fu il propulsore del primo M5s. Ed è stata anche la prima
a lasciarlo. Ben venga dunque qualsiasi organizzazione di cittadini,
avranno sempre il mio appoggio. Se poi mi chiama Sassari Libera come
fa uno spirito libero come me a non rispondere»


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Federico Marini
skype: federico1970ca


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