lunedì 13 novembre 2017

La fatica del vivere, la disperata condizione del tirar la cinghia, è una forma superiore di critica. Dalla caduta del muro ad oggi: quanti toni trionfalistici, appaiono oggi smorzati! Di Luca Pusceddu.


Ricorreva ieri l’anniversario del crollo del muro di Berlino, della festosa giornata quando “la piramide di Cheope volle essere ricostruita, masso per masso, schiavo per schiavo, comunista per comunista”. La vittoria del Capitalismo neoliberista (e in Europa degli ordoliberali tedeschi) venne immediatamente propagandata come totale, completa, tanto da suggerire a ristrette élite conservatrici un atteggiamento più cauto e realistico riguardo al futuro non del tutto entusiasmante che si preannunciava.

Evidentemente più consapevoli di quanto non lo fossero i loro (ex) avversari, passati, armi e bagagli, nel breve volgere di una notte, dall’altra parte della barricata: quella del libero mercato (a parte una sparuta minoranza di “nostalgici”). Infatti, mentre nella (ex) sinistra, “improvvisamente” scopertasi amica dell'economia (sociale) di mercato con le sue inconsistenti e malintese “terze vie”, si salmodiava a destra e a manca con enfasi circa l'eterna capacità di adattamento del capitalismo, della sua insopprimibile capacità di gettare sempre il cuore oltre l’ostacolo. Si supercazzolava molto su auto-imprenditorialità, flessibilità, mobilità sociale e mercato.

Insomma, si orgasmava senza pudore alcuno sulla rinnovata e ritrovata supremazia dell’individuo ad immagine e somiglianza di impresa (col suo pacchetto di “libertà” stabilmente incardinate in una struttura proprietaria mercantile). Ricordo ancora un’intervista rilasciata da Massimo D’Alema dove, in materia di sistema pensionistico (il periodo è quello della riforma Dini), l’attuale rifondatore della liquefatta sinistra italiana ammoniva i padri in merito al fatto che avessero rubato il futuro ai figli. Come dire che i padri avevano fatto festa lasciando il conto da pagare ai figli. Ho ancora impresso lo sguardo stupefatto, diciamo pure scoglionato, di mio padre, ex militante del PCI.

Ovviamente, come sappiamo, la realtà si è ripetutamente incaricata di far giustizia di questa paccottiglia ideologica. Tuttavia, in realtà i più chiaroveggenti tra gli analisti neoliberali, al netto dei toni trionfanlistici di circostanza, che andavano spettacolarmente riverberandosi per tutto il globo, si attendevano già con grande tensione e apprensione un qualche naufragio "da economia di mercato". Non a casaccio, chiaramente. E nemmeno “a gratis”. Ma unicamente per calcolare come poter estrarre anche da questo crollo un qualche profitto.

Non è che occorresse attendere in fondo chissà quali crolli significativi del sistema creditizio o della “congiuntura” occidentale affinché si mettesse definitivamente a nudo la crisi progressiva del sistema che era stato fin troppo frettolosamente proclamato “vincente”, con tanto di timbro accademico sulla “fine della storia”. In verità, per strati crescenti della popolazione questa crisi era già arrivata, e in termini anche molto pratici di “vivere quotidiano”: e la fatica del vivere, la disperata condizione del tirar la cinghia, per usare un verso del grande Leo Ferré, è una forma superiore di critica.

Insomma, da tempo molti cittadini dell'Occidente democratico, dove vigeva – e vige - l'economia di mercato, vivevano già da tempo in condizioni “precarie”. Tant’è che oltre la facciata scintillante della pseudo-normalità capitalistica, così come fu costruita e sbandierata nei ruggenti anni 80, quelli di Regan e Tatcher, imperversava il degrado sociale. A conti fatti la miseria umana nel mondo non era – e non è! - mai stata più grande.

E' stata prodotta, giorno dopo giorno, dall’intero sistema della tanto celebrata economia di mercato, su cui “investirono”, o per meglio dire “scommisero”, le cosiddette “riforme” a suon di interventismo statale, e all’insegna delle cui meraviglie si cominciarono a ridurre i potenziali culturali e civilizzatori: dal sistema sanitario fino all'istruzione di massa, passando per l’edilizia popolare e la sicurezza. (Certo non sfuggirà a qualcuno, per esempio, il paradosso per cui quanto più si spolpano – si “reingegnerizzano”, per usare uno tra i tanti eufemismi occultanti - i servizi sanitari e si compromettono le possibilità di accesso alle cure a strati sociali sempre più ampi, tanto più si contrabbanda, a suon di tabelle, grafici e vaneggi simili, un innalzamento dell’aspettativa di vita al solo fine di “stacanovizzare” le vita dei lavoratori tenendoli al lavoro finché morte non li separi).

E siamo all’oggi, e si discetta con toni allarmistici, e spesso artificiosamente confusi e contraffatti, su populismi e sul dilagare del neofascismo. Si prosegue a supercazzolare sullo Stato che avrebbe abbandonato il “sociale” lasciando spazi di manovra ai neofascisti. Ma lo Stato non si è ritirato da alcunché, si è semmai riorganizzato e rimodellato in funzione delle esigenze del capitalismo di crisi e di nuovi contesti. La commedia della libertà che andò in onda, a reti unificate, il 9 novembre del 1989 si è trasformata in un tragedia.

Luca Pusceddu.


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