mercoledì 23 novembre 2016

Buoncammino e la banalità del male..

Mentre cominciavamo a discutere d’impossibili argomenti, ci trovammo dinanzi al carcere di Buoncammino, il luogo tramutatosi da alcuni mesi nella mia dolcissima casa. Il penitenziario sorge su uno dei colli che dominano la città, da cui si può usufruire di un panorama eccellente, che col tempo avrei imparato a conoscere alla perfezione. Sulla sinistra c’è l’antico anfiteatro romano, nella cui pietra grigia crescono erba, fiori e siringhe. Dinanzi s’estende gran parte della mia bella città, dal porto per arrivare sino alla Laguna di Santa Gilla, in cui di tanto in tanto è riportato agli onori della cronaca il corpo di qualche “ultimo” caduto definitivamente in disgrazia. 

In lontananza si può scrutare la poderosa catena montuosa dei Sette Fratelli i cui contorni, nelle mattinate particolarmente limpide, assumono un’apparenza spettrale, a tinte sbiadite, da quadro di Monet. Alla loro base sorgono le prepotenti raffinerie della Saras, le cui ciminiere sputano fuoco senza soluzione di continuità. Su in cima, nel colle assediato da alberi ed edifici storici, s’erge allora l’emblematica “galera”, che mostra le sembianze d’un grazioso palazzotto ottocentesco, con le sue forme tonde ed affinate. Pochi elementi provocano il dispiacere dei suoi “ospiti”: le celle sono di ridottissime dimensioni, manca l’aria per respirare, la promiscuità provoca dei curiosi fenomeni d’erotismo androgino. In questo carcere sopravvive irriducibile un elevato tasso di suicidi, traboccano i ladruncoli di quartiere, i malati di AIDS, i sieropositivi, i tossicodipendenti, gli immigrati d’ogni nazione e colore, malati psichici, virali, cutanei, esorbitanti fenomeni di devianza sociale. Insomma, in questo bel posticino noi ultimi della terra abbiamo scelto un ideale luogo di villeggiatura coatta!  Al culmine della sfortuna, in ragione di volontari errori giudiziari e di maledizioni anonime, potrebbe capitarti che il tuo compagno di cella sia addirittura un politico caduto in disgrazia, e la tua pena allora è raddoppiata, triplicata, quadruplicata… Potenziata all’infinito!

Quando studiavo non potevo conoscere queste situazioni, ma durante una limpida mattina di Novembre ebbi l’occasione d’ascoltare un dialogo speciale, che accese una lampadina nell’intimo buio della mia mente ottenebrata. Sentii una voce che giungeva dalla grande roccia sulla destra del penitenziario. Dunque una donna, che teneva a fatica le stragonfie buste della spesa Conad, con una gonna spessa e nera, un fazzoletto annodato intorno alla testa, di color viola, del quasi lutto, o forse della disgrazia annunciata.
“Antò, Antò!”
Nessuno rispondeva al richiamo…
“Antò, Antoniccu, soi mamma, faidì biri fillu miu….” (Trad. Antonio, sono mamma, fatti vedere figlio mio…)
Il silenzio dominava. Poi una risposta dal nulla.
“Signora, e che cos’è, sa mamma de’ Tony Cappai?” La voce rauca giunse da una delle molteplici grate del braccio ovest. Pareva un suono proveniente da una voragine immensa, o direttamente dalla tazza del cesso.
“Eia, soi deu, mi du lammasa Antoni, po’ favori”  (Trad. Si, sono io, me lo chiami Antonio per favore?)
“Unu pagu de pazienzia. Moi si du lamu…” (Trad. Un po’ di pazienza. Si, adesso lo chiamo.)

Per qualche minuto resse il silenzio, mentre io, Maria e Oreste attendevamo che il ragazzo decidesse di farsi vivo. Restammo immobili su quel cornicione per qualche minuto, eravamo come in bilico su un invisibile filo di nailon, attendendo spasmodicamente, ed irrazionalmente, il proseguimento della conversazione. Tante volte ero transitato accanto a quelle mura ma, come spesso accade, raramente avevo ragionato sul fatto che quella pazzesca scatola di cemento fosse un contenitore di storie, vicissitudini, rapporti. Pensare che una madre possa avere un figlio rinchiuso in un penitenziario può dare alla testa. Si, tutti siamo stati bambini, comprese le persone lese, ma ciò non impedisce ad un uomo d’immedesimarsi nel dolore di un altro uomo, o, almeno, così si dice in alcuni ambienti, poi fate voi!
“Oh mà, soi deu…”
“Fillu miu bellu, comment’istasa?” (Trad: Figlio mio bello, come stai?)
“Eh, o mamma, tutto bene, tutto bene… Portami un po’ di maglioni che di sera si sta “mettendo” freddo. E babbu, d’ esti passau su dolu e sckina? (Trad: Babbo come sta? Gli è passato il mal di schiena?)
“Si, già gli è passato s’iscuru, ti salutano tanto lui, Rosa e Zia Assunta. Ascurta pagu pagu, bellu de mamma…”
“E t’esti succediu?” Rispose il fantomatico “Tony”, forse ponendo entrambe le mani a mo’ d’imbuto dinanzi alla bocca sfregiata.
“No, o Antò, che già non è successo niente. Però ti devo dire che babbo deve vendere il terreno di Zio Amerigo, e ti voleva chiedere s’eri sempre dello stesso parere…”
“Certo che lo sono, già lo sapete che non cambio mai idea, io. Digli a babbo di venderlo, e di non pensarci più, e a Zio Amerigo comprategli una bella lapide, con una foto poco poco più bella, che quella che ha fa schifo…”
“Va bene o Antò, stammi bene, guarda che ripasso domani, ciao bello di mamma.”
“Ciao o mà, e saludamì a tottusu…”

Noi non perdemmo una sola frase del dialogo familiare. Forse fu soltanto una mia impressione, ma mi parve di notare gli occhi di Maria brillare un poco. Allora non potevo immaginare che, un giorno non molto lontano, avrei conosciuto personalmente il fantomatico Tony. In carcere s’incontrano dei grandiosi farabutti sconvolti da ogni sorta di devianza, talvolta senza moralità, persa nelle mille vicissitudini quotidiane, oppure apertamente nello stesso carcere. Tony, invece, non era affatto un mascalzone, ed era riuscito a conservare un certo grado di decoro personale, attività complessa in luoghi come questo, in cui vergogne e bestialità s’accavallano a ritmi costanti e frenetici…
Ricordo come se fosse ieri (era ieri?) il giorno in cui lo conobbi. Durante un tranquillo pomeriggio primaverile, in cui il vento portava con sé gradevoli fragranze figlie del mare, un turco assetato di vendetta aveva tentato d’accoltellarmi durante una partita di “luna monta”. Tony l’aveva immediatamente immobilizzato, e gli aveva assestato un calcione talmente energico che lo scaraventò a qualche metro di distanza.
“Vinto io, vinto io, ti faccio buco di culo!” Urlava il baffuto aprendo le braccia per simulare un enorme cerchio.
“Tornatene sul Bosforo, turco della malora!” Gli rispondevo mentre lo portavano via, ben protetto dalle ampie spalle del mio salvatore.
“Eh, calmo ragazzino, altrimenti t’accoltello io questa volta…”

Detto questa breve ma essenziale frase, Tony mi mostrò il suo sorriso sdentato da killer venezuelano, tendendomi nel frattempo la sua mano grandiosa. Si trattava di un “maurro” alto un metro e novanta, per cento chili di muscoli sapientemente distribuiti su un fisico eccezionale. Prima d’essere catturato dalla volontà punitiva dello Stato faceva il meccanico, una leggenda nel suo settore, poiché sapeva procurare qualsiasi pezzo d’ogni sacrosanta vettura. Era come i meccanici cubani, che riescono a riparare quelle assurde auto americane che puoi vedere soltanto su Happy Days, guidate da Fonzie, da Pozzi, o magari dalla maledetta sottiletta Jhonny. Comunque… Sulla sua reclusione circolavano versioni fantastiche, ma un giorno scoprì che era stato arrestato per una banale “aggressione a pubblico ufficiale”.
“Mi voleva sequestrare la macchina quel bastardo, ma gli è passata, eeeh! Se gli è passata…” Mi disse una volta.
“Mamma mia”, gli risposi, “a volte esagerano proprio. Una volta m’hanno sequestrato la Marbella perché non aveva la revisione. Accidenti, per poco mio padre non m’ammazzava… Tu che macchina avevi?”
“Una Porche”
“Come mai la volevano sequestrare?”
“L’avevo appena rubata… Mi servivano dei pezzi!”
“Azz…” Simulai, cercando di non mostrare il mio sconcerto.

Tony era un eroinomane dell’ultima generazione, nelle sue vene scorrevano fluidi ignoti e pericolosissimi, miscele assolute, droghe che soltanto selezionati professionisti erano capaci di preparare. La fedina penale era lunga come un rotolo di carta igienica, ma nonostante ciò si comportava come un autentico baronetto, diceva “grazie”, “prego”, difendeva sempre i più deboli non solo dalle ordinarie angherie degli altri carcerati, ma addirittura dalle brutalità dei secondini più perfidi. Insomma, era un Fidel del carcere ma non faceva distinzioni di classe e ripudiava ogni sorta di marxismo: pestava selvaggiamente tanto i poveri quanto i ricchi, i potenti come gli ultimi della terra. Tuttavia picchiava i potenti con un sorriso, e questo elemento era sufficiente per renderlo simpatico ai più. Tutti avrebbero confidato nel suo dominio incontrastato ma Tony, pur essendo un grande uomo nel senso primario del termine, era pur sempre un uomo…
Una mattina m’apprestavo a pulire il pavimento della nostra cella. La notte precedente Davide s’era dato da fare, aveva mangiato come un ossesso e vomitando tutto con rabbia, alzando le braccia verso la luna piena che s’intravedeva dalle grate della cella. Saranno state le tre del mattino, al massimo le quattro. Alcuni viscidi inservienti lo trascinarono in infermeria, se così la si può chiamare, poiché tra l’altro aveva vomitato anche sangue. Alcuni schizzi m’erano piombati sul viso, e mentre raschiavo la tazza del cesso, mi domandavo se il caro compagno di cella fosse o meno sieropositivo. M’aveva raccontato diversi episodi con le nigeriane di Viale Monastir, e per giunta era in perfetta sintonia con Ratzinger sulla questione del preservativo. D’accordo, gli indizi non erano rassicuranti, ma decisi di non pensarci. I problemi d’ogni giorno erano sufficienti, non potevo dare retta all’ipocondria… Nel frattempo alcune incrostazioni resistevano ostinate ma, inopportuno come Sandro Bondi, il secondino di turno cominciò a sbattere il manganello sulle inferriate della cella.

SDENG! SDENG! SDENG!

“Cazzone, Tony Cappai era tuo amico, non è vero?” Domandò col suo accento siciliano.
“Si, certo, cosa vuoi Conca di cazzo?”
“Cosa voglio io? Il tuo caro amico sta regolando il conto col Grande Capo, eh eh. All’Inferno non gli daranno la riduzione di pena, lì gli avvocati non arrivano, bastardo!”
Lo guardai incredulo.
“Com’è successo… Quando?”
“Stanotte, una bella overdose… Minchia… Avrebbe steso un cavallo, ben gli sta! M’ha fatto sempre schifo quel Cappai!”.
“Maledetto”, gli dissi, “vai a farti un clistere, che ne hai bisogno…”
“Wè, wè, stai attendo a come parli… Non c’è più il tuo amico a difenderti, ricordatelo per tutto il tempo che starai qua dentro…” Detto questo il subdolo se ne andò a sbrigare qualche altro truculento affare.
Gettai lo spazzolone nel cesso, mi sedetti sul letto sprizzato di sangue e mi passai la mano sul viso. La mia mente schizzò a quel ricordo lontano, quando la madre lo chiamava e lui rispondeva dalle grate, occultato dalle mura. Tony, accidenti a te! Eppure era un esperto d’eroina, com’era potuto accadere… Una serie d’immagini inquietanti transitò nell’anfiteatro della mia coscienza. Pensai ai secondini, ai turchi, a quel dannato panettiere di Bonorva che voleva farlo a pezzi, a quel sunnita che aveva giurato, in nome dello stesso Maometto, d’ammazzarlo. No, non potevo saperlo, soltanto lui possedeva la chiave di volta, e l’aveva portata con lui nel Paradiso dei pazzi. Pensai così al carcere, alle lezioni di diritto penale, all’istituto della pena, al principio di rieducazione, alle teorie retribuzioniste, utilitaristiche, alla Costituzione… Poi pensai agli ultimi della terra rinchiusi nelle carceri, agli immigrati umiliati, ai transessuali, alle prostitute, ai ladruncoli di quartiere, e poi a tutti coloro che decidono di suicidarsi, a quelli che muoiono di AIDS o altre malattie virali, a quelli che vengono accoltellati, strozzati, violentati, quelli che nessuno va mai a trovare, quelli che attendono il giorno dopo con placida e stanca rassegnazione… Rinchiusi, segregati nel centro di Cagliari, nelle gattabuie, nascosti alla gente, alla morale che se ne frega delle anomalie che contano davvero… Poi pensai, e ripensai, e ripensai ancora, e poi, e poi… E poi giunse Davide.
“Cosa ci fai in mezzo a questo casino?” Mi chiese col viso di un biancore candido.
“Tony Cappai è morto di overdose, stanotte.”
“Ah, poveraccio! Era una brava persona… Vieni, dammi una mano.”


Davide, col camicie ancora lordo dalla sera precedente, afferrò il lenzuolo bianco che gli avevo appena sistemato sulla branda. Mi chiese d’aiutarlo per avvicinarsi alla grata, ed una volta arrivato fece un nodo al lenzuolo, per farlo scivolare tutt’intero all’esterno della cella. Trascinai la branda vicino al muro, dunque ci salii sopra. Gli altri carcerati avevano avuto la stessa idea di Davide, del resto, questa era una consuetudine radicata, la compassione vigila limpida anche tra noi disperati. Decine e decine di lenzuoli bianchi, che al sole ondeggiavano per un leggero vento di maestrale, salutavano la scarcerazione anticipata e definitiva del nostro “Tony” Cappai.

Vincenzo maria D'Ascanio
http://www.vincenzomariadascanio.flazio.com/

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