martedì 27 agosto 2019

Cesare Pavese, vittima del “vizio assurdo.” Di Vincenzo Maria D’Ascanio





 “Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti."
 (Cesare Pavese, dalla poesia
"Verrà la morte e avrà i tuoi occhi")

 (27 Agosto 1950) ll mondo della letteratura mondiale piange la scomparsa di Cesare Pavese. Pochi giorni dopo aver vinto il premio “Strega”, mette fine alla sua vita il 27 agosto del 1950, in una camera dell'albergo “Roma” di Piazza Carlo Felice a Torino, che aveva occupato il giorno prima. Venne trovato disteso sul letto dopo aver ingerito più di dieci bustine di sonnifero. Sulla prima pagina dei Dialoghi con Leucò, che si trovava sul tavolino aveva scritto: «Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi».

All'interno dello stesso libro era inserito un foglietto con tre frasi vergate da lui: una citazione dal libro, «L'uomo mortale, Leucò, non ha che questo d'immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia», una dal proprio diario, «Ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti», e «Ho cercato me stesso». Qualche giorno dopo si svolsero i funerali civili, senza commemorazioni religiose poiché suicida e ateo.

Sono molti a sostenere che la depressione cominciò dai giorni del suo impiego all’Università di Torino: posto dinanzi all'obbligo della tessera fascista, egli l’accettò per non perdere il proprio lavoro. Molti suoi amici fraterni, invece, si rifiutarono preferendo la strada dei monti e la vita del partigiano. Molti di loro morirono combattendo, uno persino tra le torture dei fascisti di Salò.

In base a questa ricostruzione, egli sentì sempre su di sé l’onta del “vigliacco” (tra l’altro Pavese fu costretto all'esilio, per aver tentato di proteggere la sua donna “comunista”). In questi stessi documenti si legge che nonostante Pavese fosse iscritto al partito Fascista dal 1933, frequentava intellettuali di chiara e comprovata estrazione antifascista. Tuttavia, in uno scritto del 1935, si ha la prova (se così la vogliamo chiamare) della sua iscrizione al partito fascista, comunque avvenuta per le insistenze della famiglia.



Nella lettera alla sorella Maria, scritta dal carcere di Regina Coeli, scriverà: "A seguire i vostri consigli, e l'avvenire e la carriera e la pace ecc., ho fatto una prima cosa contro la mia coscienza". Pavese non fu mai fascista per convinzione, infatti, alla fine della guerra s’iscrisse al Partito Comunista e collaborò con L’Unità. Tuttavia, questo travaglio interiore lo accompagnerà per tutto il resto della sua vita, come dimostrano molti cenni autobiografici nonché ulteriori lettere.

Altri, invece, sempre a proposito delle ragioni del suo suicidio, sostengono un’altra tesi, quella per l’amore non corrisposto verso una donna, l’attrice Constance Dowling, alla quale Pavese dedicò i versi di “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.” La donna lasciò Pavese senza dare spiegazioni, e questo fatto turbò profondamente il poeta piemontese.

Cesare Pavese nasce il 9 settembre del 1908 a Santo Stefano Belbo, paesino nella provincia di Cuneo. Ben presto la famiglia si trasferisce a Torino (dove il padre svolgeva il ruolo di cancelliere), anche se il giovane scrittore ricorderà sempre con malinconia i luoghi e i paesaggi del piccolo paese, visti come simbolo di serenità. Dopo il suo trasferimento il padre muore; ciò inciderà sul carattere del ragazzo, già di per sé introverso.

Già durante l’adolescenza Pavese manifestava attitudini assai diverse da quelle dei suoi coetanei. Amante dei libri e della natura, non amava la vita sociale, prediligendo passeggiate nei boschi in cui osservava farfalle ed uccelli. Anche la madre aveva molto sofferto per la scomparsa del marito e, rifugiatasi nel suo dolore e induritasi nei confronti del figlio, cominciò a manifestare freddezza e riserbo, attuando un sistema educativo rigido.

Un ulteriore aspetto preoccupante che si ricava dalla personalità del giovane Pavese è la sua già ben delineata "vocazione" al suicidio (quella che lui stesso chiamerà il "vizio assurdo"), che si riscontra in quasi tutte le lettere del periodo liceale, soprattutto quelle dirette all'amico Mario Sturani. I tratti caratteriali del giovane Pavese posso essere sintetizzati in due estremi: da una parte il desiderio della solitudine che si contrappone ad un forte bisogno di socialità. Quest’aspetto lo caratterizzerà per il resto della sua vita.

Vincenzo Maria D’Ascanio




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