giovedì 29 agosto 2019

Il barchino dell’incognita speranza. Di Vincenzo Maria D’Ascanio




Ieri sono andato a Porto Pino (presso S.Anna Arresi) con mio figlio. Sembrava un Paradiso, dopo la tempesta la spiaggia è sempre bella, il mare sempre calmo. Lorenzo saltellava dappertutto, rideva, parlava (sopratutto domandava) a quando lo prendevo in braccio mi accarezzava la barba... poi, come un fulmine a ciel sereno, ci siamo trovati dinanzi a questo barchino.

Ci siamo fermati tutti a guardarlo.
"Con quella sono arrivati degli immigrati," Mi è stato detto.

Non dico che quel barchino mi abbia rovinato la giornata, anzi, dopo sono andato a prendere un gelato. Potevo stare con mio figlio ancora un'oretta, ero al riparo dal mondo. Tuttavia, risalito in macchina ho cominciato a pensarci. Sopratutto ho pensato che in questi giorni ho ascoltato numerose notizie di naufragi, persone morte o recuperate in mare, sopratutto bambini. Ho ascoltato quella notizie come se non mi riguardassero, avrò forse sussurrato meccanicamente qualcosa... quello che chiamo "sconcerto indotto", frasi rivolte a nessuno, dette, chissà, per un patto esistenziale con me stesso, per sentirmi "dalla parte giusta".

Tuttavia, e qui il punto del discorso, ricordare mio figlio accanto a questo barchino mi angoscia, mi prende di peso e mi sbatte sul senso delle cose. Come in un sogno, mi son visto sul quel barchino tra le onde, con tante altre persone come me, con altri bambini tra cui mio figlio, che mi guardava coi suoi grandi occhi azzurri, chiedendomi una protezione che sapevo di non potergli dare. Ho immaginato quel barchino rovesciato ed allora ho rivisto le immagini, le foto, che non avrei mai voluto vedere, ma che ho visto...

Mi faccio schifo, perché allora mi sento fortunato. Allo stesso tempo ringrazio Dio, perché anche mio figlio è fortunato. Perché mio figlio vive in un Paese "normale", un Paese che mi consente di dire: "Ok, tutto quello che volete, molte ingiustizie, ma mio figlio non dovrà mai salire su una barca come quella e se mai qualcuno dovesse ricordar la precarietà dell'esistenza, io gli risponderò che potrà accadere di tutto, ma su una barca come quella mai..."

Certo. Tuttavia lascio altri padri a guardare gli occhi dei loro figli disperati. Lascio padri e madri, lascio bambini ad annegare in quel grande mare che diventa bellissimo dopo la tempesta. Non mi va di pensare cosa accade durante la tempesta, in quel mare. Cosa che ci sarebbe da urlare, cose per cui sarebbe giusto impazzire, come minimo. Tuttavia non urlo, e conservo quella ragione sufficiente per ricordare e prendere coscienza del mio fallimento esistenziale. Ovvero provare dolore, solo se su quel barchino mi rivedo col mio bambino.

Per il resto... niente. Solo quel sottile dolore, nel ricordare di essere uomini.

Di Vincenzo Maria D’Ascanio


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