mercoledì 27 novembre 2019

Le sardine (quelle sarde comprese) Fratelli d’Italia (l’inno italico patriottardo) Procurade de moderare (l’Inno nazionale sardo). Di Francesco Casula.



L’Inno “Fratelli d’Italia”: che piace tanto alle “Sardine” (quelle sarde comprese) è brutto, bellicoso, guerresco, ultraretorico, beceramente patriottardo: esso riassume una “storia” falsa e falsificata. Come peraltro tutta la storia ufficiale – quella propinataci dai testi scolastici ma anche dai Media – segnatamente quella del cosiddetto “Risorgimento” e dell’Unità d’Italia, che si pretende di riassumere nell’Inno di Mameli. Una storia sostanzialmente “ideologica”. Anzi: teologica.

Mi ricorda quella raccontata da Tito Livio nella sua monumentale opera in 50 volumi, intitolata Ab urbe condita. Lo storico latino, è persuaso che quella di Roma fosse una storia provvidenziale, una specie di storia sacra, quella di un popolo eletto dagli dei. Deriva da questa convinzione la più attenta cura a far risaltare tutti gli atti e tutte le circostanze in cui la virtus romana ha rifulso nei suoi protagonisti che assurgono, naturalmente, ad “eroi”. Tutto ciò è chiaramente adombrato anche nel Proemio, dove si insiste sul carattere tutto speciale del dominio romano, provvidenziale e benefico anche per i popoli soggetti. E dunque questi devono assoggettarsi con buona disposizione al suo dominio. Roma infatti, che ha come progenitore Marte e come fondatore Romolo, ha come destino quello di: regere imperio populos e di parcere subiectis et debellare superbos. (Perdonare chi si sottomette ma distruggere, sterminare chi resiste).

Mutatis mutandis, la storia “risorgimentale” ci viene raccontata con gli stessi parametri, storici e storiografici liviani: anche l’Unità d’Italia, sia pure in una versione laica, è “sacra”, in quanto un diritto inalienabile della “nazione italiana”, in qualche modo in mente dei da sempre. Ricordo a questo proposito Benigni quando il 17 febbraio del 2011, a San Remo, sul “palco dell’Ariston”, irrompe negli studi televisivi, su un cavallo bianco. Per impartirci, commentando l’Inno “Fratelli d’Italia”, una incredibile lezione di storia ideologica. Facendo risalire la “Nazione Italiana” addirittura a Dante. Una vera e propria falsificazione storica: il poeta fiorentino infatti combatteva le particolarità territoriali e “nazionali” e sosteneva con forza l’impero che lui chiamava “Monarchia universale”.

Ma nella sua esegesi dell’Inno il comico fiorentino si spinge oltre nella falsificazione storica: la “nazione” italiana deriverebbe non solo dagli Scipioni e da Dante ma persino dai combattenti della Lega lombarda, dai Vespri siciliani, da Francesco Ferrucci, morto nel 1530 nella difesa di Firenze; da Balilla, ragazzino che nel 1746 avvia una rivolta a Genova contro gli austriaci. Sciocchezze sesquipedali. Machines e tontesas.

Ha scritto a questo proposito Alberto Mario Banti grande studioso del Risorgimento su Il Manifesto de 26 febbraio 2011: ”Francamente non lo sapevo. Cioè non sapevo che tutte queste persone, che ritenevo avessero combattuto per tutt’altri motivi, in realtà avessero combattuto già per la costruzione della nazione italiana. Pensavo che questa fosse la versione distorta della storia nazionale offerta dai leader e dagli intellettuali nazionalisti dell’Ottocento. E che un secolo di ricerca storica avesse mostrato l’infondatezza di tale pretesa. E invece, vedi un po’ che si va a scoprire in una sola serata televisiva.

Ma c’è dell’altro. Abbiamo scoperto che tutti questi «italiani» erano buoni, sfruttati e oppressi da stranieri violenti, selvaggi e stupratori, stranieri che di volta in volta erano tedeschi, francesi, austriaci o spagnoli”. Ma tant’è: la “versione” di Benigni allora commosse il pubblico televisivo italiano e ancora oggi viene circuitata e spacciata come verità storica. Con relativo contorno di eroi e di protagonisti risorgimentali che, per rimanere in casa nostra, campeggiano ancora nelle Vie e Piazze sarde. Ignominiosamente. Perché si tratta di quelli stessi personaggi che hanno sfruttato e represso in modo brutale i Sardi. Ad iniziare dai tiranni sabaudi.

Per noi Sardi l’Inno nazionale è e deve essere “Procurade de moderare”. Non perché tale l’ha dichiarato e stabilito il Consiglio regionale della Sardegna. Ma perché più istruttivo e attuale. Con i barones moderni che stanno diventando sempre più prepotenti. E’ un Inno che ripercorre le vicende di un momento cruciale della storia della Sardegna contemporanea: il periodo del triennio rivoluzionario sardo (1793-96), che la ricerca storica più recente indica come l’alba della Sardegna contemporanea: anni drammatici, di profondissimi sconvolgimenti e di grandi speranze in cui il popolo sardo, oppresso da un intollerabile regime feudale, riuscì a esprimere in modo corale le sue rivendicazioni di autonomia politica e di riforma sociale.

Si tratta di un canto vigoroso e incisivo, dalle strofe tambureggianti, quasi a scuotere la sonnolenza dei Sardi. Sotto il profilo linguistico, esso si articola su due livelli, uno alto e uno popolare: ma non è sardo solo nella lingua, ma anche nel repertorio concettuale e simbolico che utilizza. Infatti, anche se, rappresenta un esplicito veicolo di cultura democratica d’oltralpe, è un primo esempio di discorso altrui divenuto autenticamente discorso sardo.

Di Francesco Casula
Storico, autore, tra gli altri, de “I Savoia e i tiranni sabaudi”

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