lunedì 29 maggio 2017

10 Giugno. Presentazione del libro "Gente della terra Santa" di Mahmoud Subot



Sabato 10 Giugno, ore 18:00
Presso "Teatro di Via Goldoni"
Elmas

I racconti di Mahmoud Suboh cominciano spesso con una divertente ironia  che prende di mira giornalisti televisivi ignoranti, o indotti a raccontare una  realtà capovolta, dove la verità rimane schiacciata sotto un cumulo di menzogne  e di idiozie. Ma poi il telegiornale dà una notizia e sulla leggerezza del  racconto piomba il buio e si fa largo la tragedia. E' il telegiornale che  informa l'autore ora dell'uccisione di un amico ora di un altro diventato  martire. Affiorano ricordi di dolore e nostalgia. Ritornano le immagini  dell'infanzia quando il Medio Oriente era “la terra delle fiabe e della magia”. 

Nel racconto “All'ombra del muro”  l'autore ritorna ad un infanzia magica  quando neppure il mostro incombente dell'occupazione poteva turbare quelle  notti gremite di fiabe e di racconti ascoltati con stupore. Ma quando vi  ritorna da adulto, il villaggio non gli appare più lo stesso.

“Il mostro è  ingrassato” ha fagocitato quasi tutta la terra, nessuno più racconta storie. Il  muro si erge davanti alle case come muro di prigione. Eppure i bambini sono  pieni di creatività, non si arrendono, allo stupito scrittore spiegano che  stanno scavando un buco nel muro, non per una dimostrazione politica, ma per  giocare  a pallone con i bambini che sono rimasti dall'altra parte. La vita non  si può impedire, e il gesto dei bambini appare come un'azione di resistenza a  chi vuole cancellare tutto ciò che c'è di bello, di giocoso e di felice nella  loro infanzia.


Anche il racconto “Alla ricerca del paradiso nell'inferno di Dante” comincia  con leggerezza. Per tutta la sera Mahmoud cova il desiderio di mangiare due  trote a cena, naturalmente con vino bianco. Quando dopo diversi impedimenti e  ritardi le trote sono in tavola precipita su di loro la notizia dell'uccisione di un amico. Il tono del racconto cambia e si è introdotti in una storia  straziante, come purtroppo sono le storie di molti migranti. Dopo tanta  sofferenza Hamed che aveva trovato un equilibrio felice nella sua vita, viene  ucciso per motivi abietti quanto futili. Il dolore della vedova e degli altri  familiari sono raccontati con commossa empatia e destano nel lettore una sorta  di rabbia e di triste partecipazione. Ma nel racconto c'è pure una  considerazione importante: al di là di culture e usi diversi, le persone sono  tutte uguali e hanno le stesse preoccupazioni e gli stessi sogni. La suocera italiana di Hamed ha un figlio che è partito per il Canada come lui è partito  per l'Italia e nei suoi discorsi ad Hamed sembra di  ascoltare le stesse parole  di sua madre. Dopo questi fatti drammatici la stampa non si smentisce e si  sofferma con pietà non sulla vittima innocente, ma sugli assassini e sulle loro  famiglie, commuovendosi su quelli che erano in fondo “bravi ragazzi”. E ci si  chiede come mai gli stupratori e gli assassini sono sempre “bravi ragazzi”.
Mahmoud Suboh sembra muoversi tra due mondi, quello in cui vive e quello che  conserva nel cuore. I racconti spaziano da un presente dove c'è la sua  professione di medico, la sua famiglia, i suoi amici e un passato pieno di  voci, di fiabe, di profumi, di danze e di corse. Ma anche di ricordi dolorosi  e di rimorsi. Quando è nel presente il tono della narrazione è ironico e leggero, poi si  apre una porta ed entra quella che è la storia vera e propria e lascia senza  fiato. Dopo aver letto questi racconti si rimane per 5 minuti in silenzio.

Nel racconto “Gente della terra santa” sarà un vecchietto, arrivato dal medico  non per un acciacco dell'età, ma perché non riesce a rintracciare nella memoria  il numero esatto degli invitati al suo matrimonio, ad aprire allo scrittore la  porta dei ricordi e di un ricordo in particolare. Al conto del vecchietto  mancano due persone,  questo gli provoca un grande disagio che diventa poi  rimorso quando con l'empatico aiuto del suo medico gli viene in mente che i  nomi dimenticati erano quelli del suo migliore amico e di sua moglie. Con  questo amico aveva diviso tutto, come aveva potuto dimenticarlo? Il paziente  guarito decide di andare a trovare la famiglia dell'amico dimenticato. E' a  quel punto che riaffiora il ricordo di Adnan. E compaiono immagini: Adnan che a  scuola vuole che si parli della Palestina e viene zittito dall'insegnante (ci  sono sempre spie in classe). Adnan che apriva un mondo davanti agli occhi degli  altri scolari, e spiegava loro la storia della Palestina. E poi la sua visita  al campo profughi dove viveva l'amico, il timore di venir interrogato sulla  storia, sulla cultura della Palestina, da quella gente così preparata e di fare  brutte figure, e infine la scoperta di quanto dolore impregnava le strade del  campo. La nonna di Adnan era stata arrestata, in seguito a questo fatto il  bambino aveva subito un forte trauma che lo portava ad alzarsi di notte e  ancora dormendo aprire la porta e gridare contro gli occupanti. Rattristato dal  sapere il dolore che si nascondeva dietro il sorriso di Adnan il piccolo  Mahmoud si chiedeva quante persone nel campo erano così traumatizzate.

Durante  un'incursione Adnan viene ucciso nel sonno quando apre la porta di casa e  comincia a gridare. Non riuscendo a sostenere tanto dolore il giovane Mahmoud  preferisce scappare e allontanarsi per concentrarsi sul suo futuro. Ma quel  giorno di ferragosto visitando un vecchietto che aveva dimenticato un amico,  capisce che ha lasciato qualcosa in sospeso. Non può rivedere Adnan, ma può  rivedere la nonna, quell'anziana saggia, solida come una roccia  che gli era  apparsa da bambino con una statura gigantesca e che troneggiava in un angolo  della casa  con la chiave dei profughi al collo  e raccontava, a loro piccoli,  la storia della Palestina e dei suoi poeti.
Quando però raggiunge la Palestina  apprende che la nonna è ormai morta. Si reca ugualmente nella casa, ma  guardando  verso il trono della nonna e credendo di vederlo vuoto ve la trova  assisa, con le sue rughe, con la chiave appesa al collo, vestita con il costume  tradizionale palestinese. Così come se la ricordava. Non è più la nonna di  Adnan, ma sua madre. Ha occupato il posto vuoto perché non mancasse mai una  donna anziana detentrice della memoria che istruisse i piccoli e insegnasse la  storia della Palestina e raccontasse dei suoi poeti. La mamma di Adnan, ha gli  stessi gesti e parla con le stesse parole della nonna. E' come se fossero  l'involucro mortale di una figura eterna e archetipale. Generazione dopo  generazione la memoria è mantenuta viva. E' il periodo della prima Intifada e  il campo profughi trasuda di polvere e sangue e ritratti esposti di martiri.  Una cosa sola l'autore non può perdonare a quella donna saggia, alla nonna: non  aver rivelato che Adnan, ancora quasi un bambino, non aveva lanciato una bomba  incendiaria come dichiarava l'esercito, ma era morto sognando. 

Una storia dentro un'altra storia nel racconto “Il vecchio e il passerotto”.  Il papà racconta ai bambini di Abu Salem ed Abu Salem racconta di se, sia pure   in terza persona. Quando comincia a parlare si alza un perfetto silenzio e  tutti si mettono in ascolto, perchè Abu Salem è un grande narratore. Il vecchio  racconta di come era diventato un feday, un combattente, dopo l'assassinio della sua famiglia. Aveva cercato di salvare la vita al suo figlio più piccolo,  lo aveva nascosto sotto le vesti di una vicina, ma non sapeva cosa ne era stato  di lui,  né se la vicina fosse riuscita a portarlo in salvo. Questa domanda lo  aveva angosciato tutta la vita fino all'arrivo della morte alla quale si  rivolge in tono di sfida. La grande mietitrice è messa sotto accusa.

Il  vecchio, che non poteva morire senza sapere nulla del suo ultimo figlio, la  fronteggia e la combatte. Alla fine la morte se ne va  sconfitta.  Abu Salem è  molto stanco, non riesce nemmeno ad alzarsi da terra dopo il titanico confronto  sostenuto.  Ma ecco che un  piccolo volatile, il più piccolo e tenero degli  animali, un passerotto, lo rianima con il suo cinguettio. E' così piccolo  eppure così potente, come è potente la speranza e dispiega ali portentose per  portare Abu Salem in un viaggio sopra quella che era stata la sua cittadina,  lui la vede nel ricordo di com'era e anche nella trasformazione che ha subito.  Quando torna a casa si procura un rastrello e con l'aiuto dei ragazzi della  casa pulisce tutto, pianta fiori mette a dimora piante, cambia l'aspetto del  villaggio che ora splende di luci e di colori. Da tanto entusiasmante amore per  la bellezza, prima vengono contagiati gli abitanti del suo villaggio poi degli  altri villaggi.  

Abu Salem diventa un esempio. Qualcosa è scattato in lui,  risollevandolo dalla rabbia custodita da anni. Così scrollandosi di dosso i  suoi dolorosi ricordi sceglie la vita e la sua bellezza.  I villaggi e i campi  profughi si aprono alla luce della speranza e cominciano a progettare il  proprio futuro ritrovando la fierezza antica.

Quando poi crede che la morte sia tornata a fargli visita scopre invece che la  sagoma nera che si avvicina è quella di un uomo: suo figlio. E questo racconto  non poteva finire che così, alla fine della storia pensiamo che Abu Salem se lo  è proprio meritato questo finale. Con la sua innata capacità di affabulazione. Mahmoud Suboh ci regala dei  racconti che arrivano direttamente al cuore,  informano, commuovono, rapiscono  il lettore, aprendo una finestra su una realtà e un mondo che l'autore non  conosce soltanto ma che porta nell'anima.

Miriam Marino.

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