lunedì 17 dicembre 2018

C’erano tutti a glorificarlo, ma non lui. Di Pier Franco Devias



C’erano tutti, ieri, alla caserma di Pratosardo a Nuoro. C’era la prefetta, per glorificare il vero volto con cui l’Italia si occupa della Sardegna. C'era il vescovo, in linea con la millenaria tradizione di una Chiesa che parla di pace e benedice gli eserciti. C’era il sindaco, a testimonianza della vecchia politica, che da destra a sinistra ha nascosto la propria incapacità spacciando i militari come salvezza del territorio.

C’erano i graduati, con le loro medaglie, ben più avvezzi alle cerimonie e alle comodità della branda che non ai pericoli del campo di battaglia. C’erano tutti, per dedicare la caserma a Mauro Gigli, un ragazzo di quarant’anni saltato in aria in Afghanistan. Un ragazzo originario di Sassari, che da studente non ha visto entrare nella sua classe un pastore, un agricoltore, un apicoltore, a spiegargli quanto può essere appassionante lavorare in campagna.

Non ha visto entrare nella sua classe un fornaio, che gli raccontasse quanto è bello fare il pane per la gente. Non ha sentito le parole di un muratore, che gli rivelassero il fascino di girare in un paese costruito dalle tue mani. Nella classe di Mauro Gigli, di mille Mauro Gigli, entrarono uomini che gli raccontarono di avventura, di tanti soldi, di eroismi, di Patria che ha bisogno di lui, di una bella casa, di garanzie, agevolazioni e poi di vecchiaia felice. 

Gli dipinsero una vita spericolata, facendo leva sull’impetuosità dei ragazzini, e lui cadde nell'inganno. L’inganno di chi continua a entrare liberamente nelle nostre scuole, per arruolare giovani Sardi, e mandarli a morire in terre lontane, per altre patrie, per scopi molto meno nobili di quel che si racconta.

Non gli raccontarono l’amarezza di una casa rasa al suolo, la casa dove uno cresce, ama i propri cari. Non gli raccontarono del dolore atroce delle ferite, dei paesi vuoti. Non parlarono della fame.  Non parlarono della morte. Né di quella dei bambini, né di quella delle madri. Né della sua.

C’erano anche i suoi familiari, alla cerimonia. La cerimonia in cui è stato chiamato solennemente Eroe. C’erano i figli, ragazzini appena. Con la vita davanti e già orfani.
Ragazzini a cui noi abbiamo il dovere di prospettare un futuro diverso dall’arruolamento. A cui dobbiamo dare l’opportunità di poter scegliere un lavoro dignitoso, remunerativo, produttivo, pacifico, in questa terra. Vogliamo, DOBBIAMO costruire una Sardegna in cui i nostri ragazzi possano vivere sereni, felici del loro lavoro. 

E c’era la moglie. Ancora giovane, già vedova. Vestita di nero. Col vuoto della morte intorno. Non vogliamo più eroi. Non vogliamo più orfani. Non vogliamo più vedove.

“ma lei che lo amava aspettava il ritorno 
d'un soldato vivo, d'un eroe morto che ne farà?
se accanto nel letto le è rimasta la gloria 
d'una medaglia alla memoria”
La ballata dell’eroe, F. De Andrè.

Di Pier Franco Devias


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