mercoledì 5 dicembre 2018

Il rogo della ThyssenKrupp, quando la produzione vale più della vita umana. Di Vincenzo Maria D’Ascanio.



(05 Dicembre 2007) Fiamme nell'acciaierie della ThyssenKrupp, a Torino. 7 operai muoiono investiti da un incendio provocato dalla fuoriuscita dell'olio bollente che sarebbe servito per raffreddare i laminati. Prima qualche innocua fiammella, poi un grosso incendio, una potente esplosione, un'ondata di fuoco, operai trasformati in torce umane. Antonio Schiavone muore quasi subito. Agli altri - Roberto Scola, Angelo Laurino, Bruno Santino, Rocco Marzo, Rosario Rodinò e Giuseppe De Masi - toccano giorni, o settimane, di straziante agonia.

Per Torino è come un pugno allo stomaco. Impossibile concepire un incidente tanto grave in una delle sue fabbriche più importanti, quella della famosa acciaieria tedesca. Sono giornate di lutto, di dolore, di una rabbia che si scatena già ai funerali, quando i dirigenti vengono insultati all'ingresso della Chiesa, i fiori delle corone strappati e buttati per terra. Il sindaco, che all'epoca era Sergio Chiamparino, annulla i festeggiamenti per il Capodanno. "L'anno finisce davvero male", commenta l'allora presidente del Consiglio, Romano Prodi, a Torino per i funerali di uno degli operai morti in quella che definisce la "tragedia sul lavoro più grave degli ultimi anni".

I giornali e l'opinione pubblica si occupano subito del rogo della Thyssen: insieme al dolore arrivano le polemiche, legate all'orario di lavoro (alcuni degli operai morti erano in servizio da 12 ore: otto più quattro di straordinari) ed all’accertata violazione delle più elementari norme di sicurezza. Molti lavoratori hanno assistito alla morte dei colleghi, senza la possibilità di intervenire.

I sindacati denunciano immediatamente l’inadeguatezza delle misure di sicurezza nello stabilimento. Le testimonianze degli operai accorsi sul posto dell’incidente parlano di estintori scarichi, telefoni isolati, idranti mal funzionanti, assenza di personale specializzato che potesse soccorrere i loro colleghi. Lo stabilimento Thyssen di Torino era in via di dismissione: emerge che da tempo l’azienda non investiva adeguatamente nelle misure di sicurezza, soprattutto in quei corsi di formazione necessari a prevenire stragi come questa.

Durante le sessioni processuali (11 marzo 2009) Giovanni Pignarosa, delegato Rsu delle acciaierie, rivela che l'impianto si fermava solo per problemi alla produzione: "Se i problemi intaccavano la qualità del materiale allora si bloccava l'impianto, altrimenti no e si interveniva a linea di movimento, con dei rischi altissimi per i lavoratori." E ancora: "I colleghi subivano pressioni psicologiche dall'azienda per non premere il pulsante di allarme."

Secondo diverse testimonianze, inoltre, il livello di manutenzione e pulizia era sensibilmente calato da prima del 2005. Lo stato di quasi totale trascuratezza viene confermata da un testimone il 17 marzo: gli incendi sulla linea 5 erano molto frequenti, "anche uno o due al giorno", e venivano spenti dagli stessi operai.

Dopo otto anni e mezzo la storia giudiziaria del rogo si chiude. La Cassazione ha confermato la sentenza di condanna emessa dalla Corte d’Appello di Torino un annoprima. L’ex Amministratore Delegato Harald Espenhahn è stato condannato a nove anni e otto mesi; i dirigenti Marco Pucci e Gerald Priegnitz a sei anni e dieci mesi, il membro del comitato esecutivo dell’azienda Daniele Moroni a sette anni e sei mesi, l’ex direttore dello stabilimento Raffaele Salerno a otto anni e sei mesi mentre il responsabile della sicurezza Cosimo Cafuer a sei anni e otto mesi.

Vincenzo Maria D’Ascanio


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