mercoledì 9 ottobre 2019

Dall’incontro con Puigdemont una constatazione: è l’ora di una scelta di campo non più rinviabile.




Durante il colloquio con Puigdemont di una settimana fa sono saltate fuori parecchie cose interessanti. Due mi sono rimaste più impresse. Mentre si parlava in generale di cultura, ha detto che in Catalogna la lotta per l’autodeterminazione «non è una questione etnica, ma una questione civica». Metto le virgolette perché ha usato proprio queste parole. Credo intendesse dire, nel contesto del discorso, che lingua, storia e tradizioni sono certamente importanti ma che a valere di più, adesso, è il desiderio di darsi una legge e un governo peculiari, lontani dal centralismo madrileno e da un modo di praticare la politica e le forme della democrazia che non condividono.

Libertà, insomma, per fare meglio e vivere meglio lo stare insieme. In secondo luogo: gli ho chiesto quanto conti a suo giudizio, nello sviluppo del bisogno di autodeterminazione, avere come substrato una società economicamente ricca. Ha girato un po’ attorno alla domanda ed è tornato sulla faccenda della fiscalità, negando che i catalani vogliano andarsene perché rifiutano di svenarsi a vantaggio della Spagna. Poi in concreto ha risposto che non conta quanto un popolo è ricco, ma quanto si renda conto che, da popolo libero, può migliorare le sue condizioni, anche economiche. Non siamo entrati nella questione del cosa fare di tale ricchezza.

È stata un’ora di discussione piuttosto intensa. Noi parlavamo in italiano, lui rispondeva in catalano, Martin traduceva in sardo. Chiusi in una casa fortino, accogliente ma ipersorvegliata. E Puigdemont mi è sembrato un uomo solo. Lo è, perché vive lontano dalla famiglia e dalla Catalogna, circondato da collaboratori discreti, con una rigida agenda giornaliera che alterna momenti pubblici come la manifestazione del 1° ottobre, in cui il politico si immerge nella ressa di sostenitori, oppositori e telecamere, e il silenzio del quartiere residenziale di Waterloo.   

Eppure non mi sfugge che questa solitudine è pura apparenza. Alle spalle, Puigdemont ha la forza enorme dei milioni di persone che lottano e votano per l’autodeterminazione, centinaia di municipi indipendentisti, un apparato comunicativo efficace, una macchina per la raccolta dei fondi inesausta. Lì in Belgio, lui è Stato senza orpelli, ma innervato di sostanza. E mi torna per forza in mente lo Stato pieno di orpelli (auto blu, divise, discorsi e ufficialità a profusione) rappresentato da Conte, a Cagliari, mercoledì. Orpelli senza sostanza. Sono contento di aver potuto toccare con mano, a distanza di pochi giorni, due realtà così diverse e sto qui a misurare i passi che separano me e i sardi da una scelta di campo non più rinviabile.

Maurizio Onnis

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