lunedì 2 settembre 2019

Democrazia rappresentativa, democrazia diretta e democrazia comunitaria. Di Francesco Casula.




E’ un errore tragico mettere in alternativa (e ancor peggio in contrapposizione) democrazia rappresentativa e democrazia diretta e di base. Simul stabunt vel simulm cadent. Una non può fare a meno dell’altra. Si integrano e si completano a vicenda. La democrazia rappresentativa senza la democrazia diretta rischia di isterilirsi e rattrappirsi. Riducendosi a liturgia formale. A periodico rito elettorale in cui il cittadino si limita e “votare”: spesso candidati preordinati e decisi dai Partiti. Senza alcuna vera scelta autonoma dei suoi rappresentanti, in quanto decisi “fuori”. E comunque la “partecipazione” non può ridursi a tale “scelta”.

Di qui la necessità di altre e più preganti e sostanziose forme di partecipazione e democrazia. Va bene allora la scelta dei 5 stelle del voto in Rete? Va bene: ma anche questa è assolutamente insufficiente: occorre prevedere Referendum non solo consultivi ma anche propositivi: e senza, a tal fine, la raccolta di cifre esorbitanti di firme. A tutti i livelli: da quello statale a quello regionale. Come occorre prevedere proposte di legge che provengano "dal basso" e che vincolino il legislatore, se non altro a discuterle.

Altresì occorre – soprattutto – la creazione di Organismi, di base: nei luoghi di lavoro, negli uffici, nelle scuole, nei quartieri: come veri e propri “contropoteri” popolari, che vedano la partecipazione diretta della gente, il protagonismo dei lavoratori. Tenendo comunque sempre presente che dobbiamo mirare in particolare alla “democrazia comunitaria”: partendo dai nostri paesi. Convinti che la democrazia rappresentativa – storicamente – attiene alla “rappresentanza” dei Partiti.  Non del popolo lavoratore. In Sardegna più che altrove.

Francesco Casula
Saggista e storico della letteratura sarda
Autore (tra gli altri) dell’opera “Carlo Felice e i tiranni sabaudi”


"Carlo Felice ed i Tiranni Sabaudi"

Il libro di Casula risponde a una domanda semplice: dopo che i Savoia ricevettero, controvoglia, la Sardegna nel 1720, e divennero re, come si comportarono verso quella importante parte del loro regno? La risposta al quesito è semplice, lineare, durissima: la Sardegna venne trattata come un territorio altro rispetto al Piemonte, abitato da uomini che avevano meno diritti rispetto agli altri, culturalmente e socialmente inferiori, i quali dovevano essere trattati in modo tale da mantenere questa inferiorità. Questo pensavano i tiranni sabaudi, e le loro modalità di governo, o meglio di spoliazione, sono la diretta conseguenza della visione ideologica appena tratteggiata.

Girolamo Sotgiu, probabilmente il più grande storico del periodo sabaudo in Sardegna, pur essendo un oppositore della “diversità” dei sardi rispetto agli italiani, non poté non constatare il carattere coloniale dei rapporti tra Piemonte e Sardegna. Di quei rapporti non sono colpevoli coloro che allora abitavano il Piemonte (per carità) bensì i governanti, cioè i Savoia e, successivamente, gran parte della classe dirigente post-1861.

Nel 2011, durante le celebrazioni del 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia, si è persa l’occasione di riflettere criticamente sul Paese e sul processo di “unificazione”. Però si può sempre (ri)cominciare, anche in assenza di una ricorrenza. Se un turista, un italiano o uno straniero, viene in Sardegna, scoprirà che la strada più importante, la SS131, è la “Carlo Felice”. Carlo Felice, detto anche “Carlo feroce” è stato uno dei peggiori, più sanguinari e pigri vice-re di Sardegna.

Un amico studioso ama ripetere che è come se gli israeliani, nel 2200 dedicassero la loro strada più importante a un nazista, magari a Hitler in persona. Certo, questo sarebbe potuto succedere se i nazisti avessero vinto. Dato però che non è giusto che la storia la facciano i vincitori, le persone dotate di senno o almeno di amor proprio che abitano in Sardegna, perché non mettono mai in discussione la memoria che si reifica nei nomi delle strade e delle vie di Sardegna?

A Cagliari, nella piazza più frequentata, svetta la statua di Carlo Felice. Più di sei anni fa proposi, per molti provocatoriamente, di sostituirlo con Giovanni Maria Angioy, il quale “fu il capo […] del movimento anti-feudale sardo. Angioy fece proprie le rivendicazioni delle popolazioni della campagna vessate dai feudatari, e propugnò l’eliminazione delle arcaiche strutture di potere”. Da tempo, un movimento di opinione, che ha presentato anche una petizione, chiede che la statua venga spostata.

In questa fase storica, di disfacimento di un progetto politico (l’Italia), ragionare sulla sua storia secolare e i suoi governanti, ragionare sul suo carattere plurinazionale (l’Italia è insieme alla Francia uno dei paesi europei a non aver ratificato la Carta Europea delle Lingua Minoritarie), fa sicuramente bene ai popoli in cerca di una libertà che Roma non ha fornito, ma anche a Roma stessa.

Il libro di Francesco Casula, che rifiuta ogni razzismo anti-italiano, è un valido contributo per riscrivere veramente la storia, andando contro i tanti tradimenti dei presunti chierici.

Autore dell’articolo Enrico Lobina, da “Il fatto quotidiano”


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