mercoledì 18 settembre 2019

il linciaggio di Carretta, direttore del carcere di Regina Coeli



(18 Settembre 1944) Per uno scambio di persona e per una sete di furia di giustizia sommaria, una folla inferocita uccide Donato Carretta, direttore del carcere romano di Regina Coeli durante l'occupazione tedesca. L’errore d’identità avviene davanti al palazzo di Giustizia dove Carretta, che durante l'occupazione ha aiutato la Resistenza e ha favorito l'evasione di Pertini e di Saragat dal carcere, è stato convocato per deporre contro Pietro Caruso. E’ stato Caruso, questore di Roma fino all'arrivo degli americani, a compilare, con Guidi, la lista dei nomi richiesti da Kappler per completare il numero degli italiani da massacrare alle Fosse Ardeatine, dopo l’attentato di via Rasella dove morirono trentatré nazisti.

Il 18 settembre 1944 a Roma, alle nove del mattino, doveva cominciare il processo a carico di Pietro Caruso, ex questore della capitale, e di Roberto Occhetto, suo segretario, entrambi accusati di corresponsabilità in decine di omicidi perpetrati dai repubblichini e della compilazione, insieme all'Obersturmbannführer Herbert Kappler e del Ministro degli interni Guido Buffarini Guidi, della lista di persone destinate ad essere uccise nell'eccidio delle Fosse Ardeatine.

Prima dell'apertura del tribunale una folla, tra cui molti parenti delle vittime torturate o trucidate prima della liberazione di Roma, premeva sull'esiguo cordone di forze dell'ordine a presidio dell'edificio. Il cordone non riuscì a contenere la massa di persone che si riversò all'interno al grido di "morte a Caruso" ma l'ex questore non era ancora presente in aula, trovandosi in una branda collocata in una stanza secondaria, a causa di un incidente capitatogli con la sua automobile. La morte di Donato Carretta fu orribile. Talmente raccapricciante, scrisse un cronista dell'epoca, che era dai tempi di Cola di Rienzo e della sua tragica fine che a Roma non si verificava un evento simile.

I carabinieri presenti riuscirono a sottrarlo alla furia e a farlo salire su di una automobile che tuttavia venne circondata dalla folla. Carretta fu trascinato, ormai esanime, sopra le rotaie della linea tramviaria per farlo investire ma il conducente, mostrando alla folla la tessera del Partito Comunista Italiano, si rifiutò di fare partire la macchina. Mentre gruppi di persone cercavano di spingere il tram a braccia, il conducente bloccò i freni, allontanandosi con la manovella in tasca.

Carretta, che tenta invano di sottrarsi al linciaggio, viene ferocemente malmenato, scaraventato nel Tevere e infine ucciso, tra l’altro dai bagnanti che si trovavano là per caso e dai colpi di remo di un barcaiolo incitato dalla folla. Il suo cadavere, trascinato per i piedi sul selciato fino a Regina Coeli, fu appeso a testa in giù all'inferriata del carcere, così che sua moglie, affacciandosi, potesse vederlo.

La morte di Carretta è diversa dai tanti episodi di giustizia sommaria successivi alla Liberazione. La figura dell' ex direttore carcerario non ha i tratti netti di gran parte delle altre vittime, collaborazionisti, delatori, spesso torturatori. Dopo la guerra erano moltissime le armi in circolazione: numerose personalità del regime fascista si stavano inserendo nel nuovo sistema, e molti si sentirono traditi dalla dirigenza emersa successivamente al conflitto bellico.

Alti dirigenti, burocrati, poliziotti, magistrati, molti dei quali peggiori di Carretta, restarono al proprio posto. E l'indignazione popolare cominciò a montare diventando un fiume in piena. Il processo, che si svolse a distanza di tempo dall'omicidio (la sentenza è nel giugno del 1947), risentì del desiderio di ridimensionare il fatto, di chiudere quella pagina salvando l'immagine di Carretta e riducendo l'assassinio a un "delitto di folla." Ad onor del vero, Carretta era stato in precedenza il direttore del carcere di Civitavecchia, ed i detenuti lo ricordavano come una persona meschina. Tuttavia, quando fu trasferito al “Palazzaccio” (come lo chiamano i romani) il suo atteggiamento cambiò. Forse per puro calcolo politico, forse per la morte del figlio, forse per aver assistito alle torture dei nazisti e dei fascisti. Resta il fatto, come detto, che tra i tanti aiutò Pertini e Saragat a fuggire da sicura morte.




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