lunedì 23 settembre 2019

La crisi dello Yemen a una svolta. Di Pino Cabras




Lo Yemen è già da tempo per l’Arabia Saudita quel che il Vietnam è stato per gli Stati Uniti, e quel che l’Afghanistan è stato per l’Unione Sovietica: puoi avere un volume di fuoco schiacciante, una dovizia di bombe da gettare senza risparmio, un’indifferenza ai costi umani da te causati, ma perdi lo stesso sul campo di fronte a un popolo determinato, pronto al sacrificio, capace di alleanze internazionali, con capi militari capaci di tattica e strategia e che non ragionano in quel modo grossolano dei tuoi criminali di guerra affidati soltanto al volume dei loro ordigni.

Quelli meno armati fanno una cosa astuta: a loro basta puntare a forme di “guerra asimmetrica”, dove le forze belligeranti più deboli sopperiscono alle proprie carenze quantitative e qualitative con stratagemmi che infliggono il massimo danno con il minimo sforzo ad apparati militari accecati dal loro senso di onnipotenza.
Molti dirigenti sauditi, devono essere rimasti sorpresi, quando dal cielo è giunto un attacco militare che ha distrutto i loro impianti dotati della capacità di lavorare metà del volume di petrolio che l’Arabia saudita tratta ed esporta ogni giorno.

Dopo l’attacco, il Paese ha di fatto dimezzato la produzione di greggio, che resterà priva di 5,7 milioni di barili al dì. Molti analisti corrono a prevedere rapidi aumenti del prezzo al barile, con effetti drammatici sulle nostre economie. Anche qui a Ovest molti ormai temono l’incendio che avevano a lungo lasciato divampare, ora che lambisce già le proprie case.

La sorpresa dei dirigenti sauditi sarà stata espressa più o meno così (traduco dall’arabo): «Mannaggia! Siamo il terzo paese al mondo per spese militari, nel 2018 abbiamo scucito 68 miliardi di dollari, quasi il 9 per cento del nostro PIL, sborsiamo più della Russia che viceversa se la gioca con gli USA in capacità strategica, eppure bastano pochi droni scalcinati di quei pezzenti dello Yemen per metterci in ginocchio, porcaccia di una miseria! E dire che su questi scalzacani abbiamo scaricato interi arsenali, roba da sterminarli. E invece, guarda qua che catastrofe abbiamo in casa!»

La guerra in Yemen è già oggi un disastro strategico per l’Arabia Saudita, irrisolvibile con le vie costosissime usate finora dall’uomo forte di Riad, Mohammad Bin Salman, detto MBS. O la guerra finisce e MBS trova un accordo internazionale che riduce le sue pretese in Yemen. O la guerra si allarga e incendia il Medio Oriente, e parleremmo in tal caso dell’anticamera di una guerra mondiale. Difficile invece vedere una sostenibilità dell’attuale fase bellica, che incontra una preoccupazione sempre maggiore a livello mondiale.

Oltre all’incalcolabile costo umano causato dalle continue stragi, in Yemen sono state distrutte tutte le infrastrutture, sono state generate maree di rifugiati che hanno innescato un domino di catene migratorie disastrose, mentre si è creato un quadro di instabilità a medio e lungo raggio. Le cancellerie e i parlamenti uno dopo l’altro nel mondo hanno cominciato a pensare che non sia vero che la pecunia non puzza. Puzza troppo, in questo caso. Guadagnata con una mano, ne fa perdere troppa dall’altra mano. Il caos, quando è esorbitante, fa rimettere soldi e minaccia il potere. Il dio dei bilanci in rosso scava la terra sotto il dio della guerra.

Quando molti parlamenti, tra cui il parlamento italiano senza un solo voto contrario, hanno approvato risoluzioni per interrompere le forniture all’avventura bellica dei sauditi e dei loro alleati, hanno tratto le conclusioni dovute di fronte a una vicenda diventata politicamente senza un futuro: la guerra in Yemen e gli affari connessi sono una questione da risolvere perché genera problemi di scala oramai troppo vasta. L’Onu l’ha definita «la peggiore crisi umanitaria del pianeta». E nel contempo la crisi bellica è un vettore di destabilizzazione potentissimo che si trova a pochi passi dai gangli vitali delle forniture energetiche globali.

Di Pino Cabras

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