martedì 1 maggio 2018

Rassegna stampa 01 Maggio 2018


Il dramma dei giovani, il 47% non ha un lavoro I dati dell'Istat e del Ministero certificano una crisi ancora da risolvere

I dati parlano ma la loro lingua non è sempre comprensibile, spesso dev'essere interpretata. I laureati, ad esempio: all'Istat risulta che in Sardegna oltre otto su dieci, l'83%, abbiano un lavoro. Il problema è per quanto tempo lavorano e quanto guadagnano. Così frugando tra i dati si scopre che un'alta percentuale è occupata per un totale di quattro mesi all'anno, spesso con contratti parasubordinati il 98% dei quali, se dura 12 mesi, garantisce un reddito lordo non superiore a 25mila euro all'anno, considerato dagli statistici medio-basso. Benvenuti nel mercato del lavoro nel quale vivono 562mila persone che hanno un'occupazione e 117 mila che non ce l'hanno. E il dato dei senza lavoro arriva a 253mila se si estende a chi non cerca attivamente un'occupazione, ma sarebbe disponibile a lavorare.

IL DRAMMA DEI GIOVANI Un mercato nel quale quasi la metà degli under 24 non trova un impiego e nel quale le femmine hanno ancora meno chance dei maschi: il tasso di attività maschile è pari al 70,3% mentre quello femminile è al 51,6%, quasi 20 punti percentuali di distanza. Un gap di genere inaccettabile nel 2018 (anche se gli ultimi dati consolidati sono del 2017). Dentro queste statistiche ci sono i Neet, acronimo di Not engaged in education, employment or training. Il 30,8% dei giovani under 30 che non si preoccupano della propria istruzione, non seguono corsi di formazione e nemmeno vanno a caccia di un'occupazione. Non fanno nulla. Un pezzo di generazione che secondo il Sardinian socio economic observatory costa alle casse pubbliche sarde e statali 1,7 miliardi di euro all'anno.

I TASSI PER PROVINCIA Se si guardano i numeri nelle province sarde il tasso di disoccupazione registra differenze anche di 15 punti. Si va dal drammatico 27,8% registrato nel Medio Campidano al 21,9 del sassarese sino, in ordine decrescente, al 20,6% di Carbonia-Iglesias, al 19,8% di Oristano, al 14,3% di Cagliari, al 13,1% di Olbia-Tempio, al 12,7% di Nuoro sino al 12,2% dell'Oglastra, la zona che più si avvicina alla percentuale nazionale, l'11,1%.

I SETTORI Guardando ai settori economici, i servizi sono quelli che assorbono il maggior numero dei 562.097 occupati totali mentre l'agricoltura, pur con un incremento di giovani tra gli occupati, ha subìto il maggior calo: -7,5%, passando da 41 mila a 37,9 mila unità, mentre industria, costruzioni e commercio e alberghi hanno fatto registrare rispettivamente un decremento del 3,1% (da 89,6 mila a 86,9 mila occupati), del 3% (da 38,3 mila a 37,2 mila unità) e del 3,2% (da 125,4 mila a 121,4 mila). Questi settori continuano a rimanere fragili, anche se occorre evidenziare che le perdite sono più contenute rispetto a quelle registrate nel 2015, probabilmente grazie ai benefici derivanti dalle novità introdotte dal Jobs Act.

LAVORAS La situazione resta difficile e le misure introdotte egli ultimi anni dalla Regione per ora non hanno consentito di raggiungere benefici significativi. Proprio da oggi sono in vigore gli incentivi del piano LavoRas per chi assume: per le assunzioni a tempo indeterminato di giovani under 35 o di disoccupati over 35 si sono sino a 4mila euro, per quelle a tempo determinato si arriva a 3mila. Altri 4mila arriveranno in caso di trasformazione in tempo indeterminato di un contratto a termine. «Migliorare la situazione dell'occupazione in Sardegna è l'obiettivo che quotidianamente guida ogni nostro atto», dice l'assessore regionale al Lavoro Virginia Mura.

Fabio Manca


La Nuova

Dal nuraghe Losa a Chilivani in cerca delle radici del Pd
Il regista Mereu partecipa prima all'assemblea dem e poi alla fiera dei bovini
«Chissà se questi due mondi, oggi così distanti, un giorno torneranno
a parlarsi»

di SALVATORE MEREU
Non avendo debiti col lettore, come il romanziere d' appendice, né la
serrata impellenza del racconto a tappe, provo a riprendere le fila di
un nuovo possibile viaggio, tra i tanti che mi propone questo primo
bellissimo weekend di primavera, e scelgo di andare verso il Nuraghe
Losa dove mi attende un amico e dove sento che c' è la promessa di un
racconto. Cesare Zavattini invitava sempre a scendere in strada e a
prendere gli autobus se si voleva provare a raccontare il mondo
diffidando di chi avrebbe avuto la pretesa di farlo standosene seduto
a casa propria. E da Zavattini e da Dessi (quello straordinario del
reportage di Viaggio nel Tempo) vorrei farmi guardare ora che mi
rimetto in moto.

L' appuntamento non è al Nuraghe Losa, come avevo
creduto, ma in un albergo poco distante, immerso in un bosco di
giovani sughere ammantato di asfodeli. Il sole e i profumi della
primavera in fiore magnificano quel luogo più di quanto non lo
facciano la posizione, un po' defilata, e i depliant. Ma forse è
proprio per la posizione che è stato scelto. Aspetto in un'area
adibita a parcheggio e che nella vita dell'albergo deve servire anche
da galoppatoio perché dietro lo steccato si vedono dei pony.

Arrivano
altre macchine. Scendono uomini e donne di mezza età che si salutano e
si abbracciano come vecchi compagni di scuola che non si vedono da
tempo. Se non fosse per il sole che comincia a picchiare già di primo
mattino pare una scena del Grande freddo. Ve lo ricordate il film di
Lawrence Kasdan? Un gruppo di amici si ritrova dopo tanti anni per il
funerale di uno di loro e l'occasione è utile a tutti per fare un
bilancio delle loro vite e per ricordare quale valore abbia avuto
stare insieme adesso che le loro esistenze hanno preso strade diverse.
Come nel film mi colpiscono gli abbracci, i sorrisi, il piacere di
ritrovarsi, l' importanza di esserci.

Ma a Nuraghe Losa non c'è un
morto da compiangere. C'è, semmai, un corpo, piuttosto malconcio, da
accudire e rimettere in piedi facendo attenzione a non sottoporlo a
troppi strappi. C'è il Pd. O almeno una pezzo importante del partito
che è rimasto. Il parcheggio si riempie in fretta e si contano poche
fuoriserie. Mi pare un buon segno. Avere un parco macchine che non
assomigli alla Millemiglia certo un po' aiuta a riavvicinarsi a quella
gente che si ritiene di aver perduto.

Però è anche il segno che i
maggiorenti non ci sono. Prendo timidamente posto dentro solo quando
arriva il mio amico. La sala dove si svolge l'incontro è ingentilita
da un fascio di travi in legno e non assomiglia in nulla a quei
mattatoi al neon in cui, a volte, si consumano le assisi di partito.
Chi l'ha arredata non si è fatto prendere la mano da tutto
quell'armamentario esotico che travolge spesso questi luoghi fino a
farli diventare delle vere e proprie appendici dei musei della civiltà
pastorale.

Ma non è neanche il Nazareno con le sue quinte radical chic.
Però quando la gente attacca a parlare, prima il presidente, che
formalmente ha convocato l'incontro, poi alcuni sindaci e altri
semplici simpatizzanti, l'emozione è vera e si sente vibrare nei
microfoni. A turno ci provano un po' tutti a capire cosa è accaduto in
quel terribile 4 di marzo, giorno del cataclisma, e si chiedono in
modo accorato cosa davvero si possa fare per riacciuffare quella vasta
comunità di elettori che li ha abbandonati. Nei volti, negli occhi che
luccicano, è evidente il tentativo sincero di rimettersi in
discussione. Per questo non ci si risparmia nulla.

Un giovane sindaco
del Sarrabus lo dice a chiare lettere: «Per troppo tempo i miei capi
mi hanno invitato a stare un passo indietro e a non travalicare i
confini del mio mandato, anche nei suggerimenti» non tenendo conto che
nell'organigramma di un partito il sindaco è quello che più di tutti
tiene il polso di una comunità. Ma un partito che non sa ascoltare è
un partito destinato a perdersi ed è quello che forse è accaduto a
questo Pd che da qualche anno, a varie latitudini, si è avvitato in
alcuni personalismi, finendo per frullare tutto il suo potenziale.
Però oggi è difficile non solidarizzare con questa platea che ha
deciso di fare coming out.

Poche altre volte mi è capitato di
avvertire una emozione così diffusa e insieme il desiderio autentico
di capire cosa sia capitato dopo lo scroscio impetuoso di quell'onda
che il 4 marzo ha sbattuto tutti sulla battigia lasciandoli nudi come
ossi di seppia. Da giovane studente universitario ero riuscito a
intrufolarmi dentro il palasport di Bologna il giorno in cui Occhetto
aveva presentato ai suoi la quercia, dopo i giorni tormentati della
Bolognina. Altro che luccichio.

Allora le lacrime erano corse a fiumi.
Persino Ingrao, senza mai rinunciare ai suoi distinguo, al suo statuto
di poeta, aveva pianto. E Cuperlo che allora era dirigente in fasce
della federazione giovanile. D'Alema, che girava tra i corridoi del
catino con la sua giubba di velluto della Standa ripassando in un
foglietto il discorso che avrebbe dato un calcio a Occhetto. Ma
sopratutto i simpatizzanti che avevano assiepato le gradinate esterne
del palazzetto attaccati alle loro radioline a seguire, minuto per
minuto, da vicino, la relazione del segretario generale che come un
novello Ulisse li stava per imbarcare per un lungo viaggio di cui
ancora non era chiaro l'approdo.

Molta emozione di oggi, molto
desiderio di capire, forse con un eccesso di fiducia, mi pare simile a
quello di allora anche se non tutti tra quelli venuti oggi sono
partiti da quell'altra riva del guado in questa traversata che non
sembra mai finire. Non so se il padrone di casa, qui, sia Renato Soru.
Certo è che nell'intervento di alcuni, forse il rimpianto, c'è il
ricordo di quei giorni febbrili della sua discesa in campo, esplosa in
primavera come adesso e coronata con un grande successo elettorale
sotto le querce delle colline di Gavoi quando stava per vedere la
luce, in quella stagione fulgida di promesse, anche il nostro più
importante festival letterario. Quanto avvenire dietro le spalle.
Chissà se si sarà mai chiesto quanto varrebbe oggi, nel mercato della
politica, quella sua invenzione, adesso che i partiti sono merce
scaduta.

Ma è un esercizio retorico superfluo perché da tempo è stata
diluita in un partito più grande che l'ha digerita in fretta e oggi
Soru combatte con gli altri per ridare fiducia a quel partito. È
possibile che qualcuno non abbia conservato i semi di quella stagione?
E chi li avrebbe dovuti custodire? In un partito organizzato e
strutturato come il partito democratico dovrebbe essere il segretario
a farlo, con la sua linea. Ma il segretario oggi non c'è e forse non
c'è più neanche la linea. "Il peggio che ci possa succedere" ammette
un vecchio dirigente, che del partito è stato anche segretario, "è che
si rinunci persino a stare in partita", viste le lune e l'imminenza
della competizione regionale, "o che si arrivi a ridosso delle urne
con qualche accrocchio, senza un vero programma" inducendo i più al
letargo in attesa di tempi migliori.

In questa attitudine a farsi del
male, talvolta accompagnata dalla volontà di misconoscere quanto
magari di buono si è prodotto, tanto vorrebbero buttarla in caciara
alcuni, il rischio è di fare un bel regalo agli avversari. Soprattutto
se si considera che c'è un presidente, nel pieno delle sue funzioni,
che non deve essere lasciato solo nel tirare le fila del suo mandato.
Oggi il nuovo spauracchio sono i Cinque Stelle ma chissà quanti,
magari non presenti a quest'assise, non sentendosi compresi appieno
dal proprio partito, hanno pensato, nella parte più segreta del loro
cuore, di mettere a disposizione di quella forza il proprio know how
provando a giustificare la propria eventuale trasmigrazione con l'idea
nobile, e generosa, che una forza così, anche se chiamata a governare,
non può essere lasciata a farlo con la pancia cosi come si è
presentata.

Questo genere di ammissione il militante deluso la farà
solo a se stesso, e nel segreto del suo cuore, e la trasmigrazione se
dovesse avvenire sarà meno chiassosa di quella degli elettori che lo
hanno preceduto. I più navigati, che come gli altri non sono presenti
a questa assise, forse neanche si pongono il problema. Hanno piazzato
col tempo gli amici nei posti di comando dell'amministrazione sapendo
che serve sempre meno battersi per le vestigia di un partito ora che i
partiti sono rimasti dei gusci vuoti.

L'altra faccia della medaglia a
Ozieri, e ieri ad Arborea, alla fiera annuale dei bovini, è una folla
festosa di gitanti che ha deciso di concedersi una piccola parentesi
di agio dalle fatiche quotidiane. Non è una folla inferocita quella
che si presenta ai cancelli. Forse ha già dimenticato il disappunto
manifestato nella cabina elettorale. Forse neanche sapeva che tutta
insieme avrebbe potuto generare questo sconquasso. Oggi è lì per dare
un po' di sollievo ad un esistenza che si è fatta sempre più dura e
vuole per un giorno derogare ai suoi obblighi. Deroga sulla coca cola,
sulle salsicce, sul portafoglio, per quel poco che può. Vedo guance
rosse, labbra piene di torrone, braccia tornite da anni di mungitura.

Gente che lavora e che concepisce la fiera, come in un film di De Sica
degli anni cinquanta, come un giorno di festa, che si ferma ad
ammirare un trattore sognando un giorno di comprarlo. E chi non può
spingere il sogno così in alto si porta via dei conigli, un vitello,
se non può permettersi un toro. Ce ne sono che possono arrivare a
valere fino a 10.000 15.000 euro se nel loro dna c'è la garanzia di
una linea superba. E c'è chi per passione ha fatto di questo genere di
allevamenti un'impresa, soprattutto in Gallura. È la gente, la stessa
che a Nuraghe Losa vorrebbero riacciuffare.

Quella gente per cui
bisogna tornare ad avere rispetto e che non bisogna biasimare, come
diceva Nanni Moretti, se ci mette tanto a decidere di togliere il
cellophane dal divano che ha appena comprato. Molti a un certo punto
del pomeriggio lasciano gli stand. Ad Arborea fanno incetta di
fragole, ad Ozieri si trasferiscono nel vicino ippodromo di Chilivani
perché si è sparsa la voce che ci sono gli arabi con i loro cavalli.
Anche all'ippodromo stallieri e manutentori confermano che era da
parecchio che non se ne vedeva così tanta e per l'occasione gli
organizzatori hanno chiamato anche un politico a premiare i vincitori.

Eppure oggi il politico, forse per l'ombra del pomeriggio che allunga
un velo sinistro sulla sua giovane barba canuta, mi sembra un uomo
solo a cui nessuno è disposto più a dare credito, come un vecchio
monarca infelice che è seduto sul suo trono ma non ha più a
disposizione i sudditi.

Perfino la piccola corte che lo accompagna, e
che gli dovrebbe fare da scudo, deve essersi accorta di quanto la
politica sia diventata impopolare. Nessuno che punti a incoronarlo. E
allora meglio puntare su un cavallo, su un fantino, e sognare almeno
per qualche ora che qualcosa delle nostre esistenze possa cambiare
visto che la politica non è riuscita a farlo. Chissà se questi due
mondi, oggi così distanti, torneranno a parlarsi, un giorno.

Di Maio vuole il voto Salvini non lo segue

governo»la crisi
Le nuove elezioni Politiche a giugno diventerebbero una vera e propria
corsa a ostacoli e contro il tempo. Per poter votare il 24, insieme
con i ballottaggi delle amministrative (convocate per l'11 dello
stesso mese), il presidente Mattarella dovrebbe infatti sciogliere le
Camere al massimo il 9 maggio: a soli due mesi e 5 giorni dalla loro
elezione. Una scadenza difficile anche se non impossibile da
rispettare: in otto giorni il Capo dello Stato dovrebbe effettuare un
giro di consultazioni per verificare la formale impossibilità di
formare una maggioranza in Parlamento e poi procedere allo
scioglimento delle Camere .

Il Parlamento deve essere sciolto dal
presidente della Repubblica tra i 45 e i 70 giorni prima della data
fissata per le elezioni Politiche. Per avere il minimo di 45 giorni
previsto, così da consentire il voto il 24 giugno, le Camere
andrebbero sciolte al massimo il 9 maggio. Se venissero sciolte entro
la metà di settembre, la finestra per tornare al voto sarebbe tra fine
ottobre e fine novembre: in questo lasso temporale dovrebbero tenersi
le regionali in Trentino e Basilicata. Ove ciò si verificasse, sarebbe
la prima volta che l'Italia voterebbe per le Politiche in autunno.di
Giovanni Innamorati

Matteo Renzi precipita il Pd in ciò che tutti
gli altri dirigenti avevano cercato di evitare: una resa dei conti
interna e una conta alla direzione di giovedì prossimo. L'intervista,
da Fabio Fazio, dell'ex segretario quattro giorni prima della
Direzione, cercando di determinarne l'esito a prescindere dal
confronto interno, ha esasperato tutte le altre correnti e big Dem. A
cominciare dal reggente Maurizio Martina, tutti, da Franceschini a
Orlando, da Zingaretti a Emiliano, hanno invocato un «chiarimento»,
vale a dire un voto, che dovrebbe accelerare i tempi dell'Assemblea
nazionale e del congresso, nel pieno della crisi di governo. Ma Renzi
non demorde: «Ho il diritto-dovere di illustrare le mie scelte».

Comincia Gianni Cuperlo ma l'onda contro l'ex leader monta per tutta
la giornata coinvolgendo Piero Fassino, Dario Franceschini, fino a
poco fa in maggioranza, Andrea Orlando, Goffredo Bettini e via così,
tutti critici per le esternazioni di Renzi, innanzi tutto per il fatto
di non averle pronunciate in direzione. La critica non riguarda tanto
il contenuto delle parole dell'ex premier, condivise da alcuni suoi
critici, quanto che abbia deciso di parlare in tv direttamente ai
militanti, per determinare una pressione sulla riunione di giovedì
impedendo il confronto. Martina nel pomeriggio di ieri ha fatto una
dichiarazione netta: «Ritengo ciò che è accaduto - sostiene il
reggente - in queste ore grave, nel metodo e nel merito. Così un
Partito rischia solo l'estinzione e un distacco sempre più marcato con
i cittadini e la società. È impossibile guidare un partito in queste
condizioni e per quanto mi riguarda la collegialità è sempre un
valore, non un problema».

Parole da qualcuno interpretate come una
minaccia di dimissioni, escluse però dallo stesso Martina. La parola
chiave pronunciata da tutti i critici di Renzi è «chiarimento», che,
in direzione o in assemblea, si tradurrà in un voto. I parlamentari
vicini a Renzi hanno tentato di gettar acqua sul fuoco, sottolineando
che l'ex segretario non ha fatto altro che ribadire quanto deciso
dalla Direzione il 12 marzo, e che le reazioni odierne sono esagerate.
Ma il punto è che in direzione si sarebbe dovuto discutere se
modificare la precedente decisione di un Pd schierato all'opposizione.

Parole che non soddisfano gli altri dirigenti dem. Lorenzo Guerini ha
esortato tutti a tenere i nervi saldi, per evitare spaccature, ma
proprio questa appare a molti leader l'unica soluzione per il
«chiarimento». In serata Renzi ha riattizzato le ceneri scrivendo su
twitter che è suo «dovere e diritto» spiegare agli elettori il «no»
all'accordo con M5s, visto che è stato «eletto in un collegio». Lo
scenario possibile è che giovedì Martina svolga la sua relazione in
cui proporrà una linea diversa da quella di Renzi, e su questa chieda
un voto. Una mossa di primo acchito azzardata, dato che Renzi ha sulla
carta 117 voti su 209 della Direzione.

Ma è proprio sul timore di
questi numeri da parte delle altre correnti che Renzi ha finora
contato. Al netto delle possibili defezioni tra le truppe dell'ex
segretario, i leader delle altre correnti ritengono che occorra
tentare la conta, che in caso di bocciatura della relazione di
Martina, porterà ad anticipare il congresso e al definitivo
chiarimento, mentre Renzi puntava a primarie ai primi del 2019. Solo
la prospettiva di un nuovo segretario, può aprire il «liberi tutti»
tra i renziani.


Unione Sarda

E a sinistra si riparla di federalismo
A Ghilarza un'affollata assemblea con militanti e studiosi

La sinistra sarda può contare su due strumenti per ricostruire se
stessa: l'autonomismo e il federalismo. È il senso
dell'assemblea-dibattito che si è tenuta a Ghilarza con circa duecento
militanti perlopiù del Pd o di Leu, ma anche con tanti “senza
partito”.

Nella discussione, coordinata da Ivana Russu e Tore Cherchi, i
promotori dell'iniziativa hanno proposto i princìpi autonomista e
federalista come chiavi per realizzare un pieno autogoverno, in un
nuovo patto del popolo sardo con la Repubblica e con l'Ue. Il
riferimento è il federalismo cooperativo e societario, alternativo ai
modelli di federalismo competitivo.

Tra gli intervenuti, anche molti studiosi e intellettuali. «Il
neocentralismo sconfitto nel referendum del 2016 ha creato le
condizioni per riproporre il progetto federalista attraverso un
disegno di legge costituzionale d'iniziativa popolare, da elaborare
con i territori», ha detto Gian Giacomo Ortu. Italo Birocchi ha
rintracciato nella storia del popolo sardo le radici del pensiero
autonomista e federalista. Gianmario Demuro ha analizzato i nessi tra
autonomia e democrazia. Vanni Lobrano ha sottolineato la differenza
dei sistemi politici federali rispetto a quelli basati sul
decentramento.

Dal presidente dell'Anci Emiliano Deiana è arrivata una forte critica
al centralismo e alla burocrazia regionali. Tra i vari interventi, da
segnalare Michele Carrus, Nicola Sanna, Luca Pizzuto, Dolores Lai,
Bruno Concas, Vasco Decet e altri. «Abbiamo rimesso in campo idee
ancora attuali», hanno concluso gli organizzatori, «un progetto di
lavoro che deve ritornare a essere comune a sinistra». Non per creare
nuovi soggetti, ma per ritrovare «la capacità di dibattere e creare
relazioni nel disperso popolo della sinistra».

Regione, vince chi è più sardo Riparte la corsa all'autonomia
A nove mesi dal voto quasi tutti i partiti cercano di riscoprire i
temi identitari

I partiti isolani dovranno rincorrere sempre di più l'esigenza di
maggiore autonomia della Sardegna. Un tema che sarà cruciale nella
campagna elettorale per le Regionali, quando le forze politiche
saranno chiamate a mostrarsi pronte all'emancipazione dai referenti
nazionali. Il primo segnale di questa ondata risiede nella possibilità
che varie liste aggiungano al proprio nome l'elemento locale, ma non a
tutti questa soluzione piace. Fare campagna elettorale sul concetto
che all'Isola provvedono i partiti sardi, può significare anche
rinunciare alla solita parata dei big, che sbarcano per tirare la
volata finale verso le urne.

I LEGAMI Nel Partito democratico è riemersa l'idea di dare vita a una
formazione autonoma, federata rispetto al Pd nazionale, che possa
muoversi con maggiore libertà. Per il segretario Giuseppe Luigi Cucca
il problema non è cambiare nome, «sarebbe ingenuo», ma come «coniugare
l'autonomia con l'azione politica, visto che non l'abbiamo mai fatto
con efficacia».

Cucca però è consapevole che il programma da presentare agli elettori
debba fare passi avanti rispetto al rapporto con lo Stato, e apre al
dialogo con «il Psd'Az e col Partito dei sardi per un'azione politica
che diventi un fattore programmatico per la prossima legislatura».
Forza Italia spesso si è presentata come Forza Italia Sardegna per
dare una connotazione territoriale al partito. Per la capogruppo
azzurra in Consiglio regionale, Alessandra Zedda, il primo aspetto
fondamentale è «evitare di essere meri esecutori degli ordini di
scuderia del partito a livello nazionale, dobbiamo essere noi i
protagonisti del cambiamento».

Una posizione ferma ma con la
consapevolezza che «il nostro partito si sposa benissimo con la nostra
idea di libertà e autonomia». Idea decisamente diversa in casa
Fratelli d'Italia: «Il problema è della politica sarda e non dei
“romani”», accusa il consigliere regionale Paolo Truzzu, che teme
«l'utilizzo dei temi di autonomia e di sardità come slogan per la
prossima campagna elettorale». Truzzu, poi, ricorda che «nel nostro
partito abbiamo chiesto e ottenuto che a decidere della Sardegna siano
gli esponenti locali».

Francesco Agus, di Campo progressista, è convinto che «non è
attraverso una rivendicazione senza fine nei confronti dello Stato, o
aggiungendo l'aggettivo “sardo” al nome dei partiti o degli enti
regionali, che si risolvono i problemi».

SUL TERRITORIO L'M5S è pronto a confrontarsi con i temi isolani: «I
Cinquestelle sono nati ovunque come movimento locale, con contenuti
creati dagli attivisti sul territorio, Comune per Comune, in grande
autonomia», spiega Mario Puddu, coordinatore dell'ultima campagna
elettorale. Dunque nessun timore di ingerenze, perché «il Movimento
elabora idee, temi e programmi con il baricentro e la testa in
Sardegna». Oltretutto, per il leader pentastellato, il voto delle
Politiche «descrive, in maniera nitida, una forza radicata nell'Isola,
con la schiena dritta e la volontà di rappresentare una cittadinanza
che difenderà meglio i propri interessi in quanto comunità con
un'identità originale».

GIÀ VISTO La Lega ha sposato alle ultime elezioni la causa dei
sardisti, sancendo l'alleanza elettorale nell'Isola e annunciandola
anche per le prossime Regionali. Nei confronti di chi vuole buttarsi a
capofitto su un maggiore potere per la Sardegna, il vice coordinatore
regionale, Dario Giagoni, dice: «È la solita storia e la solita
cantilena dei partiti che si preparano alla campagna elettorale».
Giagoni ricorda le battaglie del Carroccio sul federalismo e quelle
condotte da Luca Zaia e Roberto Maroni, presidenti leghisti di Veneto
e Lombardia che «hanno avviato una battaglia importante
sull'autonomia. Gli altri si riempiono la bocca, ma sono servi del
partito che ha le basi nella penisola».

«CONCETTO SUPERATO» Non sarà sufficiente fregiarsi di sardità e spinta
autonomista per fare breccia nel cuore del Partito dei sardi, che il
concetto di autonomia lo ha archiviato: «Dobbiamo costruire una
convergenza nazionale», ripete il presidente Franciscu Sedda, «perché
l'autonomia è la retromarcia rispetto al rilancio della Sardegna».
Sedda ricorda che autonomia significa comunque «dipendere dalle
decisioni romane, che non è detto tutelino gli interessi della
Sardegna». Dunque, nessun restyling sarà credibile, «non serve
cambiare il nome», ma si chiede «un cambio di mentalità, di
comportamento e motivazioni».
Matteo Sau

Moirano in corsa per le Molinette
Ma il manager dell'Asl unica assicura: «Solo un colloquio, non lascerò
la Sardegna»

A Torino qualcuno ci spera ancora: Fulvio Moirano - già
plenipotenziario della sanità sabauda - di nuovo in Piemonte per
guidare le Molinette, una delle più grandi aziende ospedaliere
d'Italia. Ma lui, il manager 65enne che dall'ottobre 2016 lavora
all'Asl unica sarda (poi ribattezzata Azienda per la tutela della
salute), non lascia dubbi: «Non vado via dalla Sardegna. Ho un impegno
col governatore Pigliaru e l'assessore Arru, e lo rispetterò».

Tutto nasce dalla domanda fatta da Moirano per entrare nell'elenco dei
direttori generali per la sanità piemontese. La procedura prevede un
colloquio, e pochi giorni fa lui si è presentato puntualmente alla
commissione. Un candidato del suo peso (è stato anche a capo
dell'Agenzia nazionale della sanità) non passa inosservato, e così
l'edizione torinese di Repubblica lo ha dato come favorito per le
Molinette, che aspettano il nuovo vertice.

Ma il monarca dell'Ats sarda lo esclude categoricamente: «Se non mi
credono ora, mi crederanno al massimo tra 15-20 giorni, quando si
saprà il prescelto e non sarò io». La domanda per il registro
piemontese serve a tenersi il campo aperto, specie in caso di
rivoluzioni politiche alla Regione sarda: «Con l'Ats ho un contratto
per altri tre anni e mezzo e intendo onorarlo. Andare via ora sarebbe
una scorrettezza verso chi mi ha scelto e verso i miei collaboratori.
Ci perderei anche economicamente.

Però è un compito delicato, che
richiede la massima fiducia del governatore e dell'assessore».
Insomma: se tra un anno, dopo le Regionali, ci fosse una Giunta
diversa e quella fiducia venisse meno, Moirano potrebbe togliere il
disturbo. «Non sto dicendo che nel 2019 vado via», precisa, «ma solo
che è meglio avere vie d'uscita se mai si creassero condizioni
nefaste. Pigliaru sa della mia domanda in Piemonte, e anche a
Chiamparino (governatore piemontese e suo grande estimatore, ndr ) ho
detto che resto in Sardegna». (g. m.)


«Battaglia per l'occupazione, ecco perché ha ancora senso celebrare
questa giornata»

Ha ancora un senso festeggiare il Primo Maggio in una terra di
disoccupati e cimiteri industriali, partite Iva nate per disperazione
e giovani condannati ai contrattini da fame che preparano la valigia
per volare lontano? I sindacati, oggi perlopiù presidiati dai
pensionati, dicono di sì. «Ha senso per ricordare a tutti, e al
legislatore per primo, che la nostra è una democrazia fondata sul
lavoro. E invece - dice Michele Carrus, segretario generale della Cgil
- il lavoro viene svilito come una merce e l'apice osceno è stato
raggiunto col Jobs Act del governo Renzi che ha umiliato e offeso
tutti i lavoratori italiani». Oggi la battaglia dev'essere questa:
«Restituire dignità al lavoro».

PROGRAMMA SCARNO Finito il tempo delle feste e dei concerti in ogni
provincia, in Sardegna l'unica manifestazione unitaria sarà a Olbia
(una giornata di musica al parco Fausto Noce), mentre la Cgil (che ha
rimandato, ufficialmente per le previsioni di pioggia, gli
appuntamenti a Portoscuso e a Villacidro) si ritrova anche per un
dibattito a Girasole. Comunque sia, pure nel Sulcis-Iglesiente - una
provincia dove su 123mila abitanti i disoccupati sono 31mila - la Cgil
pensa che il Primo Maggio sia una ricorrenza sacrosanta. «È ancora un
appuntamento necessario per rimarcare l'esigenza dei lavoratori a
restare uniti», sottolinea il segretario territoriale Antonello
Congiu.

FUORI DAL CORO Non la pensa così Fabio Enne, segretario territoriale
Cisl. Confida che «se piove starò a casa, se il tempo è bello andrò a
tagliare l'erba nel terreno di famiglia». Sono anni, dice, che «mi
rifiuto di festeggiare il Primo Maggio. E nel frattempo nel Sulcis la
situazione è ulteriormente peggiorata. La grande responsabilità ce
l'ha una politica selvaggia che non ha trovato soluzioni per le
vertenze aperte né ha pensato a prospettive alternative».

IL FUTURO Gavino Carta, segretario generale della Cisl, dice che «in
una regione dove non c'è lavoro, festeggiare il Primo Maggio significa
evocarlo». Un po' come certi riti propiziatori della pioggia dopo una
lunga siccità? Lui sorride, ma ammette che sì, è così. «Ha un senso
rimettere con forza al centro del dibattito i temi del lavoro. La
disoccupazione è la vera prima grande emergenza della Sardegna -
puntualizza -. Da essa derivano, a cascata, tutti i problemi più
urgenti, a cominciare dallo spopolamento e dall'abbandono delle zone
interne.

La politica - quindi le istituzioni, i partiti, i
responsabili della cosa pubblica - deve farsi carico di questa
emergenza, dedicando alla questione-lavoro tutte le risorse necessarie
a modificare in tempi brevi la situazione che rischia di compromettere
ogni possibilità di sviluppo per la Sardegna, privata della sua
principale ricchezza: la cultura e l'entusiasmo dei giovani».
LE RIVENDICAZIONI È una giornata di riflessione, avvisa il segretario
generale della Uil Francesca Ticca: «Sicurezza sul lavoro e lavoro che
non c'è, questi i temi». I temi della grande manifestazione nazionale
unitaria di Prato. «In Sardegna - aggiunge - abbiamo preferito una
riflessione più riservata, senza grandi momenti assembleari».

La Uil-Funzione pubblica avrà invece uno stand alla festa dei popoli a
Cagliari. «Certo che ha senso festeggiare il Primo Maggio per
ricordare sempre il suo significato profondo - dice la segretaria
Fulvia Murru -. Rivendichiamo politiche del lavoro senza le quali non
si riparte».

Piera Serusi

PD. La linea dell'ex segretario
Martina contro Renzi: rischiamo l'estinzione

ROMA Da Martina a Franceschini, da Orlando a Zingaretti passando per
Emiliano e Fassino.
L'elenco dei dirigenti Pd scesi in campo ieri contro Matteo Renzi, che
ha detto no al dialogo col Movimento Cinquestelle è lungo. E non è
solo la quantità delle prese di posizione contro l'ex segretario, ma
anche i toni sono più aspri del solito.

Renzi in tv ha dato una linea,
l'ha data senza consultare nessuno (neanche il segretario reggente) e
di fatto si muove come un segretario-ombra pur essendosi formalmente
dimesso. «È impossibile guidare il partito in queste condizioni», ha
tuonato un insofferente Maurizio Martina. Non è una minaccia di
dimissioni, hanno subito chiarito i suoi. Di qui a giovedì, quando si
terrà la direzione, come sempre si cercherà in qualche modo una
composizione.

LO SCONTRO Ma il livello dello scontro è alto. «Renzi vuole
distruggere il Pd e farsi il suo partito alla Macron», è la tesi degli
altri. «Il nodo del ruolo di Renzi non poteva non venire al pettine.
Finché siamo stati in panchina», dice un big dem, «abbiamo retto, ma
poi quando siamo stati chiamati a in campo con il tentativo con i 5
Stelle, le contraddizioni sono esplose». Ovvero quelle di un partito
in cui l'ex segretario continua ad avere i numeri, negli organismi
dirigenti e nei gruppi parlamentari, per dare la linea.

«FATTI GRAVI» Il primo a dare il via alle critiche a Renzi è stato
Martina. «Ritengo ciò che è accaduto in queste ore grave, nel metodo e
nel merito. Così un Partito rischia solo l'estinzione e un distacco
sempre più marcato con i cittadini e la società», attacca il
segretario reggente riferendosi all'uscita di Renzi in tv.

A stretto
giro arriva Dario Franceschini via twitter e i toni sono ancora più
taglienti: «È arrivato nel Pd il tempo di fare chiarezza. Dalle sue
dimissioni Renzi si è trasformato in un Signornò , disertando ogni
discussione collegiale e smontando quello che il suo partito stava
cercando di costruire. Un vero leader rispetta una comunità anche
quando non la guida più».

«LINEA NON CONDIVISA» Anche Andrea Orlando batte sullo stesso tasto:
«Le urne si avvicinano, non c'è una linea nè condivisa nè
maggioritaria, non si capisce chi dirige il partito. Ha ragione
Martina, non si può tenere un partito in queste condizioni se si ha a
cuore il suo destino». Anche Piero Fassino chiede un chiarimento:
«Dalla direzione Pd di giovedì è indispensabile che si esca con un
chiarimento che consenta a Martina di guidare il partito con
autorevolezza. Nessun partito ha vita lunga con due strategie
concorrenti e due centri di direzione».

LA REPLICA DI RENZI La replica di Renzi, via Facebook, non si è fatta
attendere. «Qualcuno dei miei compagni di partito vorrebbe fare un
governo con il Movimento Cinquestelle. Hanno una opinione legittima e
li rispetto ma non sono d'accordo. L'ho detto ed era mio dovere farlo
anche per rispetto a chi ci ha votato. Il problema non è metodologico
ma di merito: io penso che votare un governo Di Maio sarebbe tradire
il mandato dei nostri elettori. E non mi stancherò mai di dirlo».

La Nuova

Ats, 270 milioni per Rsa e Centri diurni
La giunta Pigliaru ha confermato i tetti di spesa per le prestazioni
sanitarie erogate da privati

CAGLIARI
Non cambiano i tetti di spesa dell'Asl unica, l'Ats, per l'acquisto
delle prestazioni sanitarie dai privati. Lo stanziamento è stato
confermato dalla Regione in 270 milioni per quest'anno, il prossimo e
fino al 2020. Le prestazioni private considerate in questo pacchetto
riguardano la salute mentale, l'assistenza specialistica e assistenza
termale, le dipendenze patologiche, l'assistenza alle persone malate
di Aids, quelle erogate nelle Rsa, nei Centri diurni integrati, negli
hospice, nelle strutture ospedaliere e in quelle in cui sono previsti
i servizi di riabilitazione.

«Abbiamo confermato gli stanziamenti
degli anni precedenti, calcolati sulla base dei fabbisogni stimati da
Ats - è scritto in un comunicato della Regione - La quota è rimasta
invariata anche grazie all'ultima buona amministrazione nella gestione
del sistema regionale nonostante i vincoli imposti dal piano di
rientro della spesa sanitaria». Ma per l'opposizione la riforma
sanitaria continua invece ad avere effetti negativi.

«Siamo di fronte
a un lento declino della sanità sarda - scrive il consigliere
regionale Edoardo Tocco di Forza Italia - Quella annunciata dal
centrosinistra sarebbe dovuta essere una rivoluzione, ma in realtà si
stanno verificando continui disservizi che dimostrano come quella
riforma, a cominciare dalla riorganizzazione della rete ospedaliera,
vada rivista al più presto.

Anche la maggioranza al governo della
Regione s'è accorta degli errori commessi, ma continua a non
intervenire con le necessarie correzioni». A scendere in campo è anche
la Rete in difesa della sanità pubblica: «L'ultimo accordo fra l'Ats e
l'Azienda per l'emergenza-urgenza, l'Areus, conferma che i pronto
soccorso nei piccoli ospedali nelle zone disagiate saranno presto
smantellati visto che d'ora in poi i pazienti in codice rosso o giallo
saranno sempre trasferiti in altre strutture. Anche questo è un altro
attacco all'autonomia dei piccoli ospedali».

Per il capogruppo dei
Riformatori, Attilio Dedoni, sono preoccupanti anche le indiscrezioni
secondo cui il ministero della salute starebbe ritardando il via
libera alla riorganizzazione della rete ospedaliera a causa delle
deroghe concesse ai piccoli ospedali. «Non può essere certo Roma-
scrive Dedoni - a rimettere in discussione l'organizzazione scelta dal
Consiglio regionale fino a imporci di nuovo la visione centralista su
cui si basava la proposta di Piano presentata dalla giunta e ribaltata
dall'Aula».


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Federico Marini
skype: federico1970ca

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