venerdì 11 maggio 2018

Spopolamento: il cancro della nostra isola. Di Lucia Chessa



 C’è una parte di Sardegna, quella interna e lontana, che sta morendo ma in molti, soprattutto coloro che in primo luogo dovrebbero tenerne conto, fanno finta di non vedere. Muore perché ha una malattia grave che si chiama spopolamento che non è solo un grafico in picchiata che osservate fintamente preoccupati nei convegni e sventolate ogni qualvolta, non avendo soluzioni, ripiegate sugli elenchi di problemi. 

Lo spopolamento è un impoverimento strutturale di un territorio, è la forma presente di un futuro senza speranza, è un’ombra che si proietta lunga nei prossimi decenni ed è per ciò che, chi oggi colpevolmente ne sta ignorando la portata, sta producendo un danno imperdonabile e incalcolabile.

Sono molte le immagini che, a colpo d’occhio, potrebbero rappresentare l’emorragia di presenza umana che colpisce le zone interne di questa terra. Le strade e le piazze deserte, le case disabitate con le finestre chiuse, l’assenza di negozi e vertine, ma l’immagine che a me, più di tutte, rappresenta la tragedia, sono i campi di calcio coperti di erba alta. 

Le porte che emergono, sommerse a metà dall’erba che è cresciuta indisturbata, come quando la natura si riappropria di luoghi prima umanizzati. Se fossi il presidente Pigliaru, se fossi il responsabile della programmazione assessore Paci, se fossi uno qualunque dei consiglieri regionali eletti in questo territorio o in altri, io non ci dormirei la notte davanti ad un campo di calcio così.

Quando ci penso non riesco a ricordare un intervento che è uno, pensato e realizzato riconoscendo la straordinarietà del dramma che ci colpisce nelle aree interne della Sardegna. Nessuno, anzi, viceversa ulteriori sottrazioni. Non esistono in Sardegna politiche di contrasto allo spopolamento. Non è che ci siano ma non si rivelano efficaci, peggio, proprio non esistono. Lo spopolamento, come ogni esclusione, non esiste agli occhi dei mediocri e così, silenziosamente, si condanna un territorio e si decretano diseguaglianze.

Di Lucia Chessa

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