sabato 29 settembre 2018

PALAZZO BACAREDDA. Il primo cittadino dovrebbe dimettersi soltanto in caso di elezione. Il Comune e le scelte di Zedda - I possibili scenari se il sindaco dovesse puntare alla Regione.



Dalla scelta di Massimo Zedda dipende il futuro del Comune. In questi giorni il primo cittadino e sindaco metropolitano dovrà sciogliere la riserva e decidere se candidarsi alla presidenza della Regione. Nel frattempo non dovrà togliersi la fascia tricolore perché l'eventuale incompatibilità - che diventi governatore o consigliere regionale di minoranza - si concretizzerebbe solo dopo le elezioni. In questa fase c'è un'ampia gamma di scenari possibili, in base alla scelta di Zedda e al risultato del voto di fine febbraio alle elezioni regionali.

SE SI CANDIDA E VINCE Tante anime del centrosinistra spingono per una candidatura di Massimo Zedda che potrebbe far allargare la coalizione nella speranza di evitare la disfatta e tentare una rimonta difficile. Se dovesse candidarsi e vincere le elezioni diventando presidente della Regione sarebbe un risultato clamoroso che lo lancerebbe tra le figure di spicco del centrosinistra nazionale, ma sarebbe costretto a lasciare la guida di palazzo Bacaredda.

Così come nel 2011 si era dimesso da consigliere regionale una volta eletto sindaco, in questo caso dovrebbe fare il contrario. Se dovesse dimettersi scatterebbero i 20 giorni tecnici di tempo prima della effettiva entrata in vigore: solo a quel punto prenderebbe le redini del Comune un commissario, il Consiglio comunale verrebbe sciolto e ci sarebbero i tempi per un immediato ritorno alle urne in primavera.

DI NUOVO AL VOTO Le Regionali dovrebbero essere domenica 24 febbraio mentre le Europee saranno 91 giorni dopo, domenica 26 maggio. Non si sa se ci sarà un election day o se verrà fissata un'altra data per le Amministrative, ma in ogni caso ci sarebbero 55 giorni di tempo necessari per tornare alle urne dopo le eventuali dimissioni. In caso di vittoria - o di elezione come consigliere regionale d'opposizione - il sindaco potrebbe scegliere anche un'altra strada: non dimettersi, prendere tempo e aspettare la procedura per la decadenza.

I tempi, in questo caso, si allungherebbero e la guida del Comune passerebbe in mano alla vice sindaca Luisa Anna Marras mentre anche quella della Città metropolitana dovrebbe passare al suo vice Fabrizio Rodin. Per quanto riguarda palazzo Regio, dovrebbe applicarsi lo stesso sistema col vice sindaco metropolitano che diventerebbe plenipotenziario.

Con questa soluzione si andrebbe al voto per le Comunali nel 2020, un anno prima della scadenza naturale del mandato. Ma, politicamente, se Zedda dovesse diventare presidente della Regione, al centrosinistra converrebbe tornare subito alle urne per sfruttare il vento favorevole e cercare di conservare la guida del Comune.

SE SI CANDIDA E PERDE C'è ancora molta incertezza sull'eventuale candidatura del sindaco come successore di Pigliaru. Se Massimo Zedda si candidasse e non riuscisse a vincere dovrebbe affrontare una situazione scomoda. Potrebbe decidere di non tornare tra i banchi dell'opposizione in Consiglio regionale e restare sindaco. Tornerebbe in Municipio da sconfitto e, almeno per le valutazioni politiche, conterebbe comunque il risultato raggiunto a Cagliari e dintorni.

Ma un cambio di rotta ai vertici della Regione e la sua sconfitta potrebbero avere ripercussioni letali anche sulla maggioranza che guida palazzo Bacaredda. Se tante forze politiche sarebbero pronte a schierarsi al fianco di Zedda per conquistare Villa Devoto, altrettante - in caso di sconfitta - potrebbero voltargli le spalle e cercare di farlo cadere anche in Comune.

SE NON SI CANDIDA Questa situazione potrebbe però verificarsi comunque. Anche se il sindaco decidesse di non cedere alle tentazioni e restare tranquillo al secondo piano di palazzo Bacaredda, una pesante sconfitta del centrosinistra potrebbe avere ripercussioni anche sul Comune. Gli alleati potrebbero voltargli le spalle e il cambio di bandiera a Villa Devoto, magari accompagnato da un pessimo risultato del centrosinistra potrebbe portare a una crisi tra i banchi del Consiglio comunale.

Marcello Zasso


Unione Sarda

Nel centrodestra prende forza l'ipotesi Binaghi
Il presidente della Federtennis gradito alla Lega

Il centrodestra è molto vicino alla scelta del suo candidato
governatore. Non c'è niente di ufficiale, ma il nome attorno al quale
starebbe per chiudersi il cerchio potrebbe essere quello di Angelo
Binaghi. Contrariamente a quanto si può pensare, il presidente della
Federazione Italiana Tennis sarebbe la prima scelta della Lega che,
quasi sicuramente, avrà diritto di esprimere il candidato della
coalizione. Cagliaritano, una famiglia importante alle spalle, Binaghi
è molto vicino al sottosegretario alla presidenza del Consiglio (con
delega allo Sport) Giancarlo Giorgetti. Secondo i bene informati, i
rapporti tra i due sono ottimi, e da prima del 4 marzo.

SÌ DI FORZA ITALIA Il numero uno della Fit sarebbe gradito anche a
Forza Italia, l'altro partito della coalizione che in seconda battuta
potrebbe rivendicare il diritto di esprimere un nome. Binaghi ha il
profilo adatto: ingegnere e ottimo manager, ha il merito di aver
riportato in auge il tennis italiano con campioni, in particolare
donne, che negli ultimi anni sono riuscite a vincere tornei molto
importanti anche a livello di Grande Slam. È un «decisionista»,
dicono. Uno «collaudato alla prova di governo».

Una qualità che
sarebbe apprezzata da chi cerca una figura con caratteristiche
coerenti con un programma di matrice molto autonomista e
rivendicazionista nei confronti di uno Stato «patrigno». Un nome buono
anche per Fratelli d'Italia, anche se gli esponenti del partito di
Giorgia Meloni non hanno mai nascosto di preferire una personalità
della politica. Nessuna preclusione neanche da parte dei Riformatori.
È solo una coincidenza, però, il fatto che Angelo Binaghi sia nipote
del fondatore del partito, Massimo Fantola.

SCELTA IN 15 GIORNI Strada spianata, dunque. Ma se questa è la scelta,
allora deve essere fatta subito. Il presidente della Federtennis non
vuole stare sulla graticola. Se è il nome condiviso, dovrà essere
ufficializzato entro due settimane, venti giorni al massimo.
Il nodo è comunque a livello nazionale e risale alla riunione di
Palazzo Grazioli del 20 settembre quando Berlusconi, Salvini e Meloni
hanno fatto sapere che «il centro-destra si presenterà unito a tutte
le prossime competizioni elettorali a partire dalle elezioni regionali
di Piemonte, Abruzzo,

Basilicata, Sardegna con l'individuazione di un
candidato condiviso, così come in tutti altri appuntamenti
amministrativi». Si tratta di capire come Lega, Forza Italia e
Fratelli d'Italia decideranno di spartirsi le quattro regioni a
livello di nomi in campo.

Se poi entro quindici giorni non arriverà nessun accordo, i
Riformatori hanno già avvertito che chiederanno la celebrazione delle
primarie di coalizione. Alternativa all'opzione Binaghi sarebbe la
magistrata Ines Pisano, sempre espressione della Lega di Matteo
Salvini.
Roberto Murgia

Il centrosinistra vuole schierare le liste civiche
Il sostegno dei sindaci per convincere Zedda
Ma resta l'incognita del rapporto con le primarie di Maninchedda

Se Massimo Zedda correrà per la presidenza della Regione saranno le
civiche il suo vero esercito. Sembra essere questa una delle cause dei
dubbi e dell'attesa prima di sciogliere qualsiasi riserva. In questa
situazione i partiti rischiano di essere ballerine di seconda fila per
lasciare le luci della ribalta a sindaci e amministratori. Non è
escluso che a sostegno di Zedda ci siano una lista del presidente e
altre due civiche.

Per ottenere un'investitura importante, Zedda potrebbe decidere di
presentarsi alle primarie, anche se in questo quadro politico è
difficile capire quali e organizzate da chi. Le “nazionali sarde”,
lanciate ad Abbasanta da Paolo Maninchedda, hanno dei limiti precisi
e, nonostante qualche segnale di apertura, le posizioni sono ancora
distanti.

CORTEGGIATI Non è una novità guardare al mondo dei sindaci e degli
amministratori, perché un po' tutte le forze politiche hanno sposato
questa linea. Facendo parte di quel mondo, il primo cittadino di
Cagliari rappresenta per molti colleghi una soluzione ottimale. E pare
che lo stesso Zedda valuti attentamente questo aspetto per evitare di
avere il cappello di qualche partito sulla sua investitura.
La presenza di amministratori,

inoltre, riuscirebbe a sfumare i
contorni dei partiti, in forte difficoltà nel consenso, e rendere più
libera la campagna elettorale. La deputata dem e sindaca di Sadali,
Romina Mura, dice: «Sarebbe positivo se i sindaci fossero
protagonisti, perché il loro ruolo è fondamentale». Non a caso in
questi giorni sono stati proprio i primi cittadini a sponsorizzare
ufficialmente una candidatura di Zedda. Il consigliere regionale di
Campo progressista, Francesco Agus, conferma la tesi dei sindaci
«protagonisti della politica sarda, perché su di loro, in questi anni,
si sono scaricati costi, sacrifici e responsabilità».

LE SPINE La campagna elettorale sarà caratterizzata soprattutto dal
tentativo di ricucire il rapporto tra politica e territori. «I
Municipi sono i punti di riferimento e in molti paesi sono rimasti
anche gli ultimi», sottolinea Agus, «ricucire lo strappo significa
dare agli amministratori la possibilità di essere protagonisti».

Inoltre, questa operazione permette di riportare all'impegno attivo
tanti sindaci che sono entrati in rotta di collisione con il governo
regionale e che hanno rotto i rapporti con il proprio partito di
riferimento.

LA CORSA Le primarie quasi sicuramente si faranno. Il problema è
capire quante saranno, chi parteciperà e quale sarà il progetto. Il
Partito dei sardi, protagonista della campagna delle “primarie
nazionali”, è distante dal Partito democratico e soprattutto pone la
questione nazionale.

Il presidente del Pds, Franciscu Sedda, ha
scritto al presidente di Campo progressista (partito di Zedda),
Luciano Uras, che aveva aperto alle primarie, non della nazione sarda
ma del popolo sardo. Dopo un'analisi sul contesto politico, Sedda
lancia l'appello: «Non credete che la questione del popolo sardo vada
posta su un terreno più radicale di rivendicazione di tipo
nazionale?».

Il Partito dei sardi ci crede, così come reputa che le primarie
nazionali sarde siano il terreno ideale per definire il progetto e
«scegliere insieme chi debba guidare i sardi nell'affermazione dei
loro diritti e interessi nazionali, dandogli il mandato e la forza che
solo una mobilitazione nazional-popolare può dare». La speranza del
leader indipendentista è che si possa «costruire una grande coalizione
nazionale sarda, pluralista e unita, dove la sinistra sarda e l'area
moderata sarda possano tranquillamente riconoscersi».

IN ATTESA Romina Mura pensa alle primarie come «strumento utile per
individuare il candidato o la candidata alla presidenza della
Regione». Certo l'importante è che «ci sia un progetto condiviso a
monte, su temi come insularità, trasporti e nuovi rapporti con lo
Stato». Agus, crede nell'utilità delle primarie se «consentono un
rafforzamento della coalizione e offrono alle tante persone fuori dai
partiti di riavvicinarsi alla politica».
Matteo Sau

Coalizioni, è il tempo dei calcoli
Partiti al lavoro per sfruttare al meglio la legge elettorale

Corsa in solitaria o dentro una coalizione? Non è soltanto la scelta
del candidato governatore a impegnare i ragionieri dei partiti, ma
anche gli effetti della legge elettorale sul nuovo scenario politico.
Quella sarda è stata di fatto studiata su un sistema bipolare fatto da
coalizioni numericamente forti. A fare da filtro a un parlamento sardo
eterogeneo ci sono le soglie di sbarramento, il limite minimo da
raggiungere per concorrere all'elezione di consiglieri. Per una
coalizione questo limite è fissato al 10% dei voti validi che, con un
calcolo approssimativo sui numeri del 2014, significherebbe prendere
tra i 77 e gli 80 mila voti.

I partiti che si presentano senza
alleati, come nel caso del Movimento 5 Stelle, devono superare la
soglia di sbarramento del 5%. Per i candidati alla presidenza della
Regione, invece, la regole è che oltre il vincitore, in Consiglio
regionale entri il secondo più votato, lasciando fuori tutti gli
altri.

La legge elettorale prevede un premio di maggioranza: se il
presidente eletto supera il 40% dei voti, potrà contare sul 60% dei
seggi in Consiglio regionale, mentre chi vince con una forbice
compresa tra il 25 e il 40% avrà il 55% di premio. L'unico caso in cui
i seggi vengono assegnati con un proporzionale puro si verifica se
nessuno raggiunge il 25%. (m. s.)


Puddu: «Non so se ci sarà una consultazione in rete o deciderà Di Maio»
M5S in cerca del candidato che sostituirà Mura

Il Movimento 5 Stelle ha chiuso da tempo con le regionarie la pratica
delle candidature. Con Mario Puddu in corsa per la carica di
governatore, i pentastellati lavorano sul programma che verrà
presentato ufficialmente ai sardi. «Fra poco spingeremo
sull'acceleratore per entrare nel vivo della campagna elettorale»,
dice Puddu.

Ancora non è stata decisa una data, ma il piano di governo
della Regione dell'M5S è stato costruito attraverso tavoli tematici
sulle questioni più importanti dell'Isola. Qualche proposta comincia a
circolare, come nel caso della legge urbanistica o della riforma
sanitaria, con posizioni diametralmente opposte rispetto al governo
regionale di centrosinistra.

NUOVA SCELTA Dopo l'approvazione delle dimissioni di Andrea Mura dalla
Camera, il Movimento 5 Stelle dovrà partecipare alle elezioni
suppletive. Ancora in fase di studio il metodo con cui verrà scelto il
candidato dell'uninominale: «I criteri sulla scelta verranno
comunicati da Luigi Di Maio», spiega il candidato dell'M5S. Non si sa,
dunque, se la scelta avverrà attraverso una consultazione in rete
oppure con una scelta così come è stato fatto per gli altri 8 collegi
uninominali, dove il Movimento ha fatto l'en plein alle elezioni del 4
marzo. Nessuna alleanza per il Movimento 5 Stelle che, al livello
regionale, non sarà influenzato dal contratto di governo con la Lega.
M. S.

La Nuova

Seggio scoperto, è partita la caccia ai candidati
Cagliari, sfumata l'ipotesi Berlusconi in Fi spunta Cicu. Il Pd
potrebbe rispondere con Soru o Pigliaru

SASSARIIl collegio di Cagliari potrebbe essere la prima occasione
utile per Silvio Berlusconi per rientrare in Parlamento, ma
difficilmente il leader di Forza Italia approfitterà delle dimissioni
di Andrea Mura. Troppo rischioso per l'ex premier misurarsi in un
collegio per nulla sicuro, che il 4 marzo aveva premiato i 5 stelle.
Il suo nome era circolato all'indomani dell'annuncio dell'addio a
Montecitorio del deputato-velista.

D'altro canto, fin dal momento in
cui Berlusconi era stato riabilitato dal Tribunale di sorveglianza ed
erano stati cancellati gli effetti della legge Severino, lo stato
maggiore di Forza Italia aveva iniziato a studiare i possibili scenari
per candidare l'ex premier. La prima occasione si presenta ora a
Cagliari, ma ormai Berlusconi è concentrato sulle Europee di giugno,
dove presentandosi capolista in tutti i collegi non corre rischi di
una bocciatura personale alle urne.Le suppletive di Cagliari,
comunque, saranno un primo test a livello nazionale, anche se molto
probabilmente saranno indette insieme alle regionali.

Il che fa
supporre che per quel collegio si replicheranno le stesse alleanze per
il governo dell'isola. E dunque i due partiti che sostengono Conte, il
M5s e la Lega, si ritroveranno avversari nelle urne. I 5 stelle,
infatti, che hanno già scelto il loro candidato governatore, Mario
Puddu, e hanno annunciato di andare da soli alle elezioni,
presenteranno un loro nome. Difficile sapere se verrà scelto con una
consultazione on line oppure se sarà pescato dalla società civile,
anche se l'esperienza Mura ha lasciato il segno nel Movimento. Su
Cagliari potrebbe ritrovare l'unità il centrodestra, ma il nome del
candidato dipenderà da chi sarà il leader della coalizione.

In questo
momento in pole c'è il segretario del Psd'Az, Christian Solinas, e a
quel punto il seggio per la Camera potrebbe essere offerto a un big di
Forza Italia come Salvatore Cicu, visto che la legislatura in Europa è
ormai agli sgoccioli. Stesso discorso che può valere nel
centrosinistra per Renato Soru, che ha già annunciato la sua decisione
di non ricandidarsi a Strasburgo, o per l'attuale governatore
Francesco Pigliaru, che in quel modo si farebbe da parte e lascerebbe
la strada libera per la leadership di Massimo Zedda. (al.pi.)

Il Def fa paura ai mercati
Di Maio-Salvini: «Avanti»

Compleanno di lavoro per il ministro del Tesoro che compie 70 anni
di Silvia GasparettowROMALa manovra da 40 miliardi messa in cantiere
dal governo gialloverde, quasi tutta in deficit, spaventa i mercati,
con lo spread che fa un balzo di oltre 30 punti e tocca i 280 punti e
la Borsa che registra profondo rosso, con un tonfo che in un solo
giorno brucia 22 miliardi di capitalizzazione.Un esito atteso davanti
al quale l'esecutivo ostenta sicurezza perché la manovra porterà più
crescita e una volta che saranno svelati «i dettagli», garantisce il
presidente del Consiglio Giuseppe Conte, «lo spread sarà coerente con
i fondamentali della nostra economia».

A Roma non fa paura nemmeno una
eventuale bocciatura della Commissione europea, che si riserva di
esprimersi quando avrà sul tavolo la bozza della legge di Bilancio ma
che già ha sottolineato, attraverso i guardiani dei conti Ue, Valdis
Dombrovskis e Pierre Moscovici, che l'Italia così non rispetta le
regole.Più severo il primo, più dialogante il secondo, che spiega come
non ci sia interesse ad aprire una crisi con l'Italia che però sta
facendo scelte che rischiano di «impoverire i cittadini».

Anche in
casa nostra le risposte hanno accenti diversi: Matteo Salvini,
spavaldo, dice che «i mercati se ne faranno una ragione» e che se la
Ue boccerà la manovra «tiriamo avanti» lo stesso, mentre Luigi Di
Maio, che a sua volta si dice «non preoccupato da spread e mercati»,
getta acqua sul fuoco spiegando che nessuno vuole andare allo scontro
con Bruxelles e che il debito calerà, grazie alla crescita.Per la
legge di Bilancio vera e propria, comunque, c'è ancora quasi un mese
di tempo, mentre a 24 ore dal Consiglio dei ministri che ha approvato
la nota di aggiornamento al Def il ministro dell'Economia Giovanni
Tria non ha ancora espresso alcun commento e l'unico dato noto è il
deficit, che il governo ha deciso di fissare per i prossimi 3 anni al
2,4% del Pil.

Ancora non si sa che effetti avrà questa scelta né sul
debito, che rischia di non scendere se non marginalmente e sfruttando
magari qualche trucco contabile come sostiene l'ex commissario alla
spending review Carlo Cottarelli, né tantomeno sul Pil. La manovra
«sarà seria, meditata e coraggiosa» si limita a dire il premier
confidando che «sia la ricetta giusta per la crescita e lo sviluppo
sociale». Un obiettivo ragionevole, si lascia sfuggire uno dei vice
del ministro dell'Economia, Massimo Garavaglia è che si possa arrivare
anche all'1,5%, se avrà successo la scommessa di smontare la legge
Fornero per favorire il ricambio generazionale e di introdurre il
reddito di cittadinanza migliorando le condizioni per trovare lavoro.

Se Confindustria e sindacati guardano con cautela al Def auspicando
che ora non si sbaglino le misure della manovra, la prima reazione dei
mercati mostra però che gli investitori sono poco convinti che una
politica così espansiva (27 miliardi di deficit) ma con questo mix di
interventi possa rappresentare una garanzia di tenuta dei conti
pubblici italiani. Nel venerdì nero di Piazza Affari a soffrire è
tutto il listino con il Ftse Mib che lascia sul terreno il 3,72% a
20.711 punti.

E a finire sotto tiro sono in particolare i bancari con
perdite da capogiro comprese tra il 9,43% di Banco Bpm e il 6,73% di
Unicredit. Ma il conto dei timori di maggiori spese e debito lo pagano
anche le aziende di Stato, con Poste tra le più bersagliate (-4,28%
che la riavvicina ai valori della quotazione). Lo spread tra il Btp e
il Bund chiude in rialzo a 267 punti base da 235 punti, col tasso sul
decennale che torna, dopo alcuni mesi, sopra il 3% al 3,13%. Un
livello che, se si manterrà tale, costerà alle casse dello Stato un
esborso già calcolato da diversi istituti in 3-4 miliardi, e che
dovrebbe essere a sua volta quantificato nell'aggiornamento del Def.

La rabbia di Tria, potrebbe lasciare dopo la manovra. Il Quirinale preoccupato
Il pressing dell'M5s spiazza la Lega
di Michele Esposito

Il giorno dopo il «ce l'abbiamo fatta»
lanciato da Luigi Di Maio sul balcone di Palazzo Chigi è un giorno di
lunghi silenzi e ripetute rassicurazioni. I primi arrivano dal grande
«sconfitto» della manovra di M5S-Lega, Giovanni Tria. Le seconde sono
scandite dal premier Giuseppe Conte e dai due vicepremier, pronti a
spalare i via ogni dubbio sulla stabilità dell'esecutivo giallo-verde.

Ma il titolare del Mef, irato per quanto accaduto giovedì e al lavoro
nel suo ministero su una manovra non sua, non avrebbe escluso del
tutto- si apprende in ambienti parlamentari- il grande strappo dopo il
varo della legge di bilancio. Se il rischio dimissioni sembra lontano
da qui fino all'ok delle Camere alla manovra, tutto, o quasi, potrebbe
accadere già a partire dal giorno successivo.

Di certo, quanto
accaduto giovedì stabilisce un «prima e un dopo» nell'era
giallo-verde. M5S-Lega, con una manovra da 40 miliardi e un
deficit/Pil del 2,4% scelgono di andare allo scontro aperto con l'Ue e
di camminare sui carboni ardenti dei mercati. Ma, già nel corso del
vertice di martedì sera con i ministri M5S, Di Maio aveva fatto capire
ai suoi di essere pronto a tutto per questo, anche alla crisi di
governo. Troppo importante per la sua leadership e per il M5S era
inserire il reddito di cittadinanza, misura con la quale i 5 Stelle
tornano a blindare il loro elettorato del Sud. «Abbiamo ricordato a
Tria che manteniamo le nostre promesse», sottolinea, non a caso, il
ministro Riccardo Fraccaro.

Il messaggio di «guerra» pentastellato ,
attraverso Conte, è arrivato ben chiaro a Tria, e forse anche al
presidente Sergio Mattarella, ben consapevole che una crisi
dell'esecutivo alle porte della manovra sarebbe stata deflagrante per
la stabilità italiana. Ed è su questo terreno che il M5S, con il pieno
appoggio di Salvini e con Giancarlo Giorgetti che, fino all'ultimo,
caldeggiava prudenza, ha potuto forzare.

Con un'appendice non di poco
conto: l'aver «ceduto» all'influenza della Lega la gestione della
ricostruzione del Ponte Morandi, affidata al neo commissario Claudio
Gemme, manager di lungo corso che, alle ultime elezioni, era stato tra
i papabili candidati del centrodestra a sindaco di Genova.

Dal Quirinale intanto filtra «preoccupazione per la tenuta dei conti».
Rimasto al suo posto secondo molti su sollecitazione del Quirinale,
nonostante la decisione di Lega e Movimento 5 Stelle di sfidare
l'Europa e i mercati con una manovra finanziata quasi interamente in
deficit, il ministro Tria ha lavorato per ore, nel giorno del suo
settantesimo compleanno, alla Nota di aggiornamento al Def. Ha
riscritto e limato con il suo staff le tante pagine del documento, i
focus, gli approfondimenti e, soprattutto, le attese tabelle di
finanza pubblica.

È lì che comparirà scritto nero su bianco il
disavanzo al 2,4%, è lì che si evidenzieranno gli obiettivi di
crescita del governo per i prossimi anni ed è sempre lì che verrà
calcolato il livello del debito pubblico, quello su cui l'Italia è
internazionalmente più esposta. Prima dello strappo consumato a
Palazzo Chigi, il ministro non aveva escluso la possibilità di
partecipare ad una conferenza stampa sull'educazione finanziaria da
tempo programmata al ministero.

La necessità di lavorare alla NaDef,
in una versione molto diversa rispetto a quella fino a pochi giorni fa
immaginata, lo ha però bloccato nei suoi uffici, allungando la
striscia di silenzio che ha contraddistinto le sue ultime, difficili,
48 ore. A lungo Luigi Di Maio, Matteo Salvini e Giuseppe Conte hanno
continuato a commentare in pubblico quelli che dalle loro parole
sembrano i risultati già raggiunti con la manovra ancora da scrivere
(crescita, vittoria sulla povertà, rilancio degli investimenti), ma
dal titolare del Tesoro - ed è una novità assoluta - non è arrivata
nemmeno una parola.

Difficile dire se nasconda l'impegno a ricalcolare
le tabelle o la necessità di contenere una scontata arrabbiatura. I
suoi commenti saranno affidati alla premessa della Nota, la
tradizionale introduzione con cui il ministro dell'Economia presenta
le linee programmatiche del governo al Parlamento.

Il capitolo che più
rappresenterà la sua visione è quello degli investimenti che saranno
previsti dall'ultima manovra e che sono da sempre uno dei suoi cavalli
di battaglia anche in ateneo. Ma non sarà semplice per il professore
esprimere davvero la sua convinzione. Dopo aver rivendicato di aver
giurato «nell'interesse esclusivo della nazione», degli italiani e dei
loro risparmi, giustificare ora un possibile aumento del debito
potrebbe essere una missione non facile.


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Federico Marini
skype: federico1970ca


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