mercoledì 14 dicembre 2016

Rassegna stampa 14 Dicembre 2016

La Nuova

Centro Democratico: via dalla maggioranza-Centrosinistra, ancora liti
Il voto segreto impallina la Busia a favore di Lai. Esplode la rabbia di Capelli
Numeri risicati e rapporti burrascosi tra alleati: rimpasto sempre più difficile

di Umberto Aime
CAGLIARI Chissà come finirà, qualcuno comincia a sospettare male, ma
non ci sono più dubbi: la maggioranza di centrosinistra è così debole,
al suo interno, che ormai basta un nonnulla per mandarla fuorigiri.
L’ultima lite, con anche il volo di piatti e stracci, s’è consumata in
Consiglio regionale. Per l’elezione dell’Ufficio di presidenza, è
accaduto di tutto fino al punto che il Centro democratico s’è preso
ventiquattr’ore di tempo per decidere se sostenere ancora la Giunta.

Però bisogna riavvolgere più il volte il nastro di una giornata
confusa, per capire meglio cos’è accaduto. Posti in palio. Era il
giorno delle elezioni di due vicepresidenti del Consiglio, una
destinato alla maggioranza, l’altro all’opposizione, tre questori, si
occupano tra l’altro del bilancio dell’aula, con due in quota per il
centrosinistra e uno assegnato alla minoranza, e infine di un
segretario. Intorno a questi sei posti – neanche così pesanti – s’è
scatenato un putiferio dovunque. Con un particolare visto finora poche
volte: ben 58 i presenti in aula su 60, un record.

Unici assenti:Francesco Pigliaru, convalescente, e Antonello Peru,
per i postumi dei suoi guai giudiziari. Vincitori e vinti. Dopo un lungo tira e molla,
Eugenio Lai di Sel è stato confermato vicepresidente, ma la candidata
ufficiale del centrosinistra sarebbe dovuta essere Anna Maria Busia
del Cd. Che invece, ancora prima del voto, è stata bruciata dai veti
incrociati mossi da alcune correnti del Pd e da diverse frange della
coalizione. Vista l’aria pessima, la consigliera ha rinunciato anche
se poi nell’urna saranno comunque in tre a votarla.

Per uscire dall’imbarazzo, in serata, Lai è ritornato a essere una prima scelta,
nonostante pare fosse pronto a farsi da parte. Così, con appena 19
voti su una trentina che avrebbe avuto a disposizione – tra l’altro
saranno due in meno rispetto a chi è stato eletto anche lui a sorpresa
per la minoranza, Ignazio Locci – il vicepresidente uscente è stato
riconfermato. Un pasticcio molto simile è capitato con elezione dei
questori: hanno vinto, nell’ordine, Fabrizio Anedda (28 voti, Sinistra
sarda), candidato ufficiale del centrosinistra, Alessandro Unali, 25 ,
anche lui di Sinistra sarda, ma scaricato da una parte dell’alleanza,
e Giorgio Oppi, 22, dell’Udc. A essere bocciato è stato l’uscente Pier
Mario Manca, indicato dal Partito dei sardi e punito perché ormai il
movimento fondato da Paolo Maninchedda pare essere finito nel mirino,
a torto o ragione, di molti alleati. È invece filata via liscia
l’elezione del primo segretario d’aula, con la conferma di Daniela
Forma del Pd. Però è quanto accaduto dopo il voto ad aver reso ancora
più complicata una crisi politica cominciata giorni fa con le
dimissioni di due assessori l’uscita dalla maggioranza dei Rossomori e
quel rimpasto in Giunta ora caotico. L’accusa. A prendersela più di
tutti per quanto era accaduto in Consiglio è stato il deputato Roberto
Capelli dell Centro democratico. Da Roma, nel mezzo del voto di
fiducia al governo Gentiloni, ha lanciato saette su saette.

Per cominciare: entro poche ore il Cd deciderà se restare in maggioranza,
perché «è intollerabile il trattamento cui è stata sottoposta la
consigliera Busia». Tutti sono colpevoli, secondo il deputato: dal Pd,
per aver accettato in silenzio il ricatto del Partito dei sardi, che –
testuale – «ha posto un veto ad personam sull’elezione di una donna».
Non è finita. Dopo aver annunciato di aver sollecitato al segretario
del partito, Nicola Selloni, «una riunione immediata della direzione
regionale», Capelli è andato oltre. «È questa la goccia che fa
traboccare il vaso – ha detto – perché il veto del Pds – da lui
ribattezzato con rabbia il Partito dei soldi – è la brutale risposta
al mio post in cui denunciavo la sospetta velocità di un concorso per
infermieri all’Asl di Oristano, dov’è commissario chi sta vicino,
guarda caso, al Pds». È stata una ripicca consumata per interposta
persona, la conclusione di Capelli, che ha inviato Lai a dimettersi
«se ha dignità». La replica del capogruppo del Pds, Gianfranco Congiu,
è stata forte: «Capelli vaneggia e non conosce i fatti». Come se non
bastasse, in un’intervista al sito «Fuoripagina», il leader dei
Rossomori Gesuino Muledda è ritornato alla carica: «Pigliaru, in nome
di una presunta superiorità, non dialoga con chi l’ha eletto. Poi ci
sono ancora gli assessori Maninchedda e Paci: fra i due non saprei chi
scegliere, in negativo intendo». Ormai il centrosinistra è oltre la
crisi politica: è affogato in una crisi di nervi.

L’unica nota simpatica, questa: Gavino Manca (Pd) s’è conquistato sul campo e
grazie a Luca Pizzuto (Sel) il titolo onorifico di ministro. Perché? Per
la sua vicinanza con un neo vero ministro: Luca Lotti allo Sport.

Gli azzurri si spaccano e metà gruppo fa un’alleanza trasversale: eletto Locci
Anche Forza Italia nel caos, Tedde ko

CAGLIARI Se la maggioranza è in affanno, il centrodestra non sta
meglio. Sempre per un posticino nell’Ufficio di presidenza del
Consiglio, anche Forza Italia alla fine s’è spaccata in due tronconi.
Primo colpaccio. A vincere a sorpresa la corsa per la vicepresidenza
dell’aula è stato Ignazio Locci, eletto, mentre Marco Tedde è uscito
malconcio. Invece proprio l’ex sindaco di Alghero era il candidato
ufficiale della minoranza, ma è stato bruciato da una rivolta
silenziosa consumata – anche questa – nel segreto dell’urna.

A guidarla, i giovani azzurri, pare sostenuti dal coordinatore regionale
Ugo Cappellacci, e soprattutto decisi a non rispettare l’imposizione
arrivata giorni fa dai vertici del gruppo consiliare. Cioè da Pietro
Pittalis, Alessandra Zedda e dallo stesso Tedde. A dare una mano ai
ribelli, poi vincenti al traguardo, sono stati di sicuro i piccoli
partiti del centrodestra ma soprattutto quelli del centrosinistra, che
con almeno dieci voti hanno fatto pendere la bilancia a favore di
Locci. Il consigliere regionale dell Sulcis ha avuto così la meglio su
Tedde: 21preferenze contro 13, il risultato finale.

Per il trio di testa è stata una sconfitta bruciante e la reazione stizzita del
capogruppo Pittalis ha alzato i toni di questa sfida che potrebbe
degenerare. «Auguri sinceri al nuovo vicepresidente – ha detto
Pittalis – ma avrei preferito che tutto fosse avvenuto alla luce del
sole, non da dietro i muretti a secco e grazie agli accordi segreti
stretti da una parte del nostro gruppo col centrosinistra». Con una
coda che potrebbe essere ancor più velenosa: «Informerò subito gli
organi superiori del partito – ha aggiunto – di quanto accaduto e
vedremo se saranno presi provvedimenti». Dall’altra parte della
barricata di questa lotta intestina non sono arrivati commenti. Anche
se i grandi manovratori del blitz – fra gli altri pare Stefano Tunis –
non hanno nascosto sottovoce la soddisfazione per «aver punito il
triumvirato». Però al di là dei bollettini, a saltare agli occhi è
soprattutto lo strappo fra la segreteria del partito, Cappellacci, e
il capogruppo Pittalis. Quale sarà l’effetto dello scontro lo si
capirà presto. Secondo colpaccio. Nella giornata confusa delle
votazioni, il centrodestra ha difeso comunque il questore che aveva,
con la riconferma di Giorgio Oppi dell’Udc. Ma anche per il leader dei
centristi non sono mancati i rischi di essere impallinato.

È stato rieletto solo perché a uno dei due candidati ufficiali del
centrosinistra – Pier Mario Manca del Partito dei sardi – hanno
annullato diversi voti. Per l’esattezza, i sette di consiglieri,
chissà se spinti dal dolo o dalla dimenticanza, che hanno scritto
sulla scheda solo Manca, e non anche il nome per evitare l’omonimia
con un altro Manca, Gavino del Pd ed è per questo che Pier Mario ha
perso. Sta di fatto che Oppi da vecchio leone è rimasto in sella e
forse ha dato una mano anche ad Alessandro Unali di Sinistra sarda. Lo
strano ticket ha funzionato proprio nel momento in cui Unali stava per
essere scaricato da una parte del centrosinistra sempre per un posto
di questore. Per lui però è arrivato in soccorso anche l’Udc e, alla
fine, uno solo ha perso: Pier Mario Manca. (ua)

Nel governo fotocopia molte le figure chiave riconducibili all’ex presidente
Per ora Gentiloni tiene la delega ai servizi segreti. Family day contro Fedeli
Il Giglio magico è vivo e pronto a fare squadra
di Maria Berlinguer

ROMA Renzi? A Pontassieve, ma il Giglio Magico è vivo e lotta insieme
a noi. Nel giorno della prima fiducia del governo Gentiloni
l’attenzione si sposta sulla percentuale di renzismo allo stato puro
sopravvissuta al referendum. E nel governo fotocopia di Gentiloni
spiccano i volti di Boschi e Lotti. Ma le «figurine» dell’album di
famiglia sono tante. Personaggi chiave in posti chiave come l’ex capo
dei vigili di Firenze, Antonella Manzione a capo dell’ufficio legale
di palazzo Chigi.

E in quota Renzi è da ritenersi anche la
vicepresidente del Senato, Valeria Fedeli, scelta per sostituire
Stefania Giannini all’Istruzione, dopo il flop della Buona scuola
presentato da Renzi in pompa magna e ora senza più padri nè madri.
L’ex sindacalista della Cgil, da sempre a sinistra, è finita nel
mirino dei promotori del Family day che considerano la sua nomina una
provocazione per le sue posizioni in favore delle unioni civili e
della teoria gender. E ora c’è anche chi come Mario Adinolfi accusa la
Fedeli di aver millantato una laura mai conseguita. Il diploma di
“laurea in Scienze sociali” infatti sarebbe stato istituito molti anni
dopo la laurea della Fedeli. Sia come sia la Fedeli ha organizzato
prima del referendum l’appello di ex sessantottino per il Sì.

E come la Boschi aveva promesso di lasciare la poltrona in caso di sconfitta.
L’ha fatto. Ne ha avuta un’altra. Quanto alla laurea, secondo quanto
riporta “Il Mattino”, il suo staff conferma che l’espressione
“laureata” usato nel suo curriculum sarebbe un “infortunio lessicale”
sul quale si sta speculando. Matteo Renzi ha lasciato l’appartamento
al terzo piano di palazzo Chigi, ha fatto gli scatoloni ed è tornato a
Pontassieve da dove sta tentando di organizzare un congresso lampo per
riprendersi la segreteria e blindare la sua candidatura a premier
nelle elezioni che immagina molto ravvicinate. Ma nel palazzo del
governo che lo ha ospitato per quasi tre anni ha lasciato Maria Elena
Boschi. Incurante delle ironie (e delle cattiverie) che impazzano sui
social, che rimandano le sue perentorie dichiarazioni nelle quali
annunciava che avrebbe seguito Renzi lasciando la politica se al
referendum avessero vinto i No, l’ex ministro delle Riforme è stata
«scelta» da Paolo Gentiloni come sottosegretario unico di palazzo
Chigi. Un ruolo chiave, quello, per intenderci, che è stato coperto a
lungo da Gianni Letta nell’era Berlusconi. Un posto di potere vero.

Di fatto una promozione. L’ex ministro delle Riforme sarà di fatto una
vicepremier. A lei toccherà stabilire per esempio l’ordine del giorno
del Consiglio dei ministri. Difficile dissociare il volto della Boschi
da quello di Renzi. Si racconta che l’ex premier le avrebbe
consigliato di fermarsi per un giro, di lavorare al Pd per un periodo,
in attesa di tempi migliori per lei e per il mentore. Ma l’idea di
dover lasciare il governo mentre Luca Lotti continuava a imperversare
silenziosamente nei palazzi del potere romano ha fatto venire la mosca
al naso alla bella toscana. Che si è impuntata: o tutti e due o
nessuno, avrebbe detto. Tallonando poi Gentiloni con una serie di sms
fino a quando non ha ottenuto il posto. «Capisco che in questo periodo
con la disoccupazione dilagante sia difficile trovare un lavoro»,
commenta perfida Daniela Santanchè. «Con la Boschi fuori si sarebbe
dato un segnale di discontinuità, aggiunge il bersaniano Davide
Zoggia. Promosso anche Luca Lotti. l’ex sottosegretario non ha avuto
la delega ai servizi, un pallino fisso di Renzi che avrebbe voluto
portare a palazzo Chigi l’amico Marco Carrai,ma al dicastero dello
Sport è arrivato con la delegata al Cipe e all’Editoria.

Ed è la delega al Cipe che fa discutere. Claudio De Vincenti, fresco di nomina
a Mezzogiorno e Coesione territoriale sarà infatti un ministro senza
portafoglio. «È un ministro ai convegni, non siamo mica ai tempi di
Barca, la cassa, cioè il Cipe ce l’ha Lotti, gli Affari Regionali
Costa e i fondi europei sono già prolungati fino al 2020», spiega
Francesco Boccia. Un discorso a parte meritano la delega dei servizi.
Lotti non l’ha avuta, sembra anche per le perplessità di Mattarella.
Era nella mani di Marco Minniti, ora promosso lui in quota Renzi al
posto di Alfano agli Interni. Per ora Gentiloni ha deciso di tenerla
per sè, come fece per i primi mesi Mario Monti. Ma deciderà presto a
chi affidarla. E anche qui ecco che spunta il nome di un altro
renziano, Emanuele Fiano, responsabile della sicurezza Pd.

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Unione Sarda

Bufera anche in Forza Italia: Locci batte Tedde, il capogruppo
Pittalis attacca Cappellacci
Nomine in Aula, caos nei due poli
Vicepresidenze, bocciata Busia (Cd): rottura nella maggioranza

La coalizione del centrosinistra rischia di perdere altri pezzi. Il
motivo è lo strascico al veleno, lasciato dall'elezione dei
vicepresidenti del Consiglio regionale che potrebbe sfociare in una
rottura definitiva col Centro democratico.

LO STRAPPO Dopo che la maggioranza non è riuscita a trovare l'accordo,
la consigliera Anna Maria Busia (Cd) ha ritirato la candidatura per
lasciare il posto a Eugenio Lai (Sel). Nei prossimi giorni il Centro
democratico si riunirà per decidere sul futuro. Intanto il presidente
della commissione Autonomia, Francesco Agus (Sel), annuncia le
dimissioni dalla guida del parlamentino per «lasciare a una delle tre
donne la possibilità di ricoprire un ruolo apicale».

IL VOTO Alla fine Eugenio Lai ottiene 19 voti, due in meno rispetto a
Ignazio Locci (Forza Italia), vicepresidente eletto dall'opposizione
che a sorpresa la spunta sul collega di partito, Marco Tedde. L'Aula
ha eletto anche i tre questori: due per la maggioranza, Fabrizio
Anedda e Alessandro Unali (entrambi del gruppo misto) e uno
dell'opposizione, Giorgio Oppi (Udc).

IL VELENO Il deputato del Centro democratico Roberto Capelli utilizza
parole di fuoco per commentare quello che è successo in Consiglio
regionale: «Il mio parere personale è che ci sia stato un veto ad
personam, scatenato dal Partito dei sardi». I rapporti, dopo l'uscita
di Roberto Desini dal Centro democratico per il Pds, non sono
idilliaci. Ma nel mirino ci sono anche altri partiti.
«La responsabilità è anche di chi si è fatto ricattare, ossia il
Partito democratico», sottolinea Capelli che prova a cercare i motivi
del veto sulla consigliera. «Penso sia successo anche a causa di
alcune mie richieste su una maggiore trasparenza. Non vogliamo essere
complici di una politica fatta di interessi personali e clientelismi».
Con la rottura dietro l'angolo, Capelli aggiunge: «Attendo che il
vicepresidente Lai, visto il risultato ottenuto, si dimetta».

LA RISPOSTA Il consigliere del Partito dei sardi, Gianfranco Congiu,
risponde alle accuse di Capelli, sostenendo non ci sia «nessuna
pregiudiziale o veto del partito nei confronti di Anna Maria Busia».
Congiu, poi attacca: «L'onorevole Capelli vaneggia, conosce i fatti,
le sue affermazioni sono false e questo mi dispiace».

DIMISSIONI Francesco Agus boccia l'operazione andata in scena ieri
sera in Aula: «Un Consiglio regionale in cui ci sono solo quattro
donne, e nessuna di queste ricopre ruoli di vertice, è intollerabile».
La volontà è riuscire a dare un segnale forte ed è per questo che Agus
annuncia che «dopo aver chiuso i lavori sulla proposta di legge
elettorale e sulla doppia preferenza di genere, mi dimetterò dalla
presidenza della prima commissione».
Un'occasione per restituire «a una delle tre consigliere della
maggioranza la possibilità di ricoprire un ruolo importante». Una
scelta che trova il sostegno anche da parte del senatore di Sel
Luciano Uras: «La Sardegna non può essere il fanalino di coda della
battaglia per la doppia preferenza di genere. Bene ha fatto Agus a
promuovere questa iniziativa».

L'OPPOSIZIONE L'elezione di Ignazio Locci, che raggiunge 21 voti,
agita intanto le acque dentro Forza Italia. Marco Tedde chiude con 13
preferenze, sovvertendo i pronostici di questi giorni. Il capogruppo
Pietro Pittalis non nasconde un certo malessere: dopo aver fatto gli
auguri a Locci parla di «accordi trasversali con una parte del
centrosinistra». Poi l'attacco al coordinatore del partito, Ugo
Cappellacci: «Dispiace che abbia sostenuto la candidatura di Locci
creando una divisione nel gruppo».

L'INCONTRO E intanto, sulla doppia preferenza di genere, il presidente
del Consiglio Gianfranco Ganau ha convocato per stamattina alle 10
l'associazione “Meglio in due”. Dopo la raccolta di firme e le mozioni
approvate in oltre 100 Comuni dell'Isola, l'obiettivo è dare
un'accelerata alla proposta di legge in aula.
Matteo Sau


Ieri sera lo sbarco al molo Ichnusa: a bordo anche sei donne morte
Scalzi e in maniche corte A Cagliari 854 migranti

Sono seduti sul ponte della nave, in tanti indossano le magliette a
maniche corte con le quali hanno affrontato il viaggio. E sono
stremati: non hanno neanche la forza di affacciarsi per vedere
quell'Europa che sono riusciti a raggiungere dopo tante sofferenze.
Attendono quasi con rassegnazione che si concludano le lunghe
operazioni di attracco.
Sono gli 854 migranti sbarcati ieri, al molo Ichnusa, dalla “U.
Diciotti”, nave vessel patrol (praticamente un pattugliatore della
Guardia costiera): sono stati raccolti in sei diversi salvataggi nel
mar Mediterraneo e, ieri pomeriggio, hanno finalmente toccato terra.
La polizia ha fermato un presunto scafista, ma ne sarebbero stati
indicati altri dagli stessi naufraghi.

In 300, saliranno già oggi a bordo di un'altra nave: 150 verranno
portati a Olbia per essere imbarcati verso Civitavecchia, altrettanti
saranno trasferiti a Porto Torres da dove partiranno per Genova. Dei
554 che resteranno nell'Isola 263 andranno in centri della (vecchia)
provincia di Cagliari, 167 a Sassari, 72 a Nuoro e 52 a Oristano.
I MIGRANTI Sono 854 migranti che possono, comunque, considerarsi
fortunati. Perché del gruppo formato da 771 uomini, 45 donne e 38
minori, facevano parte sei che non sono riuscite a sopravvivere a un
viaggio tanto duro. Sarebbero morte annegate, i corpi sono stati
portati all'Istituto di medicina legale per le autopsie.

È il dodicesimo attracco a Cagliari da quando è cominciata l'emergenza
migranti. Il solito campionario della disperazione. Con una differenza
rispetto al passato: questa volta - fatto decisamente insolito - ci
sono anche 198 marocchini mentre non ci sono né etiopi, né eritrei. Ma
ci sono 5 iracheni, altrettanti siriani, 3 libici, persone che
arrivano dalle guerre che si combattono a poche centinaia di
chilometri dall'Europa.

A parte il corposo gruppo di migranti provenienti dal Bangladesh (57),
sono quasi tutti africani: 145 arrivano dal Senegal, 65 dal Gambia, 48
dal Mali. Poi ivoriani, ghanesi, nigeriani e di tanti altri paesi africani.
LO SBARCO La “U. Diciotti” si affaccia al molo Ichnusa poco dopo le
16. Dopo undici sbarchi, la macchina organizzativa è perfettamente
oliata: tutto è pronto, volontari e forze dell'ordine si muovono quasi
all'unisono. Solo l'imbarcazione della Guardia costiera mostra qualche
comprensibile lacuna: alcuni migranti sono stati raccolti in mare
senza scarpe; sulla nave non sono preparati e i piedi dei migranti
vengono coperti con un tessuto metallico.

Lo stesso materiale usato anche per coprire chi sente freddo.
Le operazioni di attracco sono lunghissime: solo dopo un'ora scende il
primo passeggero. È una donna, ha la caviglia fasciata: viene fatta
sbarcare su una carrozzella; un'altra, subito dopo, tocca il suolo
europeo allo stesso modo.

Poi è il turno di un bambino che ha al massimo tre anni: viene portato
a terra da una militare, guarda con occhi curiosi tutto quello che sta
accadendo intorno a lui. Sorride un po' spaesato quando viene
fotografato, sotto la scaletta, per l'identificazione.

LE OPERAZIONI Sono ormai le 18 quando cominciano a scendere tutti gli
altri: vengono fotografati e portati all'interno del terminal crociere
dove i medici della Asl li visitano. Poi si procede
all'identificazione. L'esercito dei volontari è mobilitato: ci sono
gli “psicologi per i popoli”, i “farmacisti volontari”, oltre,
naturalmente, la Protezione civile, la Croce rossa e la Caritas.
C'è anche l'assessore comunale alle Politiche sociali Ferdinando Sechi
che deve prendere in carico le sei donne morte e il mediatore
culturale Omar Zaher: se le defunte sono musulmane, ha il compito di
organizzare il funerale. Le operazioni di identificazione non sono
semplici. Ma, già nella serata, in 400 prendono la via verso il centro
a cui sono stati destinati. Gli altri 450 trascorrono la notte al
terminal. «Ma tutto sarà concluso entro il pomeriggio», garantisce la
vice prefetta Carolina Bellantoni.
Marcello Cocco

La Regione non utilizzerà ancora i locali della polizia penitenziaria
«La scuola di Monastir? Per ora non serve»

Le quote sono state superate: con i 554 migranti arrivati a Cagliari e
destinati ai centri di accoglienza dell'Isola, sono ormai quasi
seimila i richiedenti asilo presenti in Sardegna. Circa 600 in più
rispetto alle “assegnazioni” su base regionale. Situazione
preoccupante, ma non ancora allarme rosso. «Per ora stiamo riuscendo a
utilizzare i centri che accolgono i migranti. Siamo leggermente sopra
la quota che ci è stata assegnata ma non saliamo oltre i numeri di
ottobre», afferma il capo di gabinetto della presidenza della Regione, Filippo Spanu.

Almeno per il momento, dunque, non sarà utilizzata l'ex scuola della
polizia penitenziaria di Monastir. Nei mesi scorsi, la popolazione
aveva protestato per il paventato arrivo di migranti. E, addirittura,
qualcuno aveva piazzato una bombola di gas con un innesco nel
tentativo di far esplodere un'ala dell'edificio. «Visto che i numeri
sono più o meno gli stessi dei mesi scorsi quando non era stata
utilizzata la scuola », riprende Spanu, «non credo che sarà necessario
usare la scuola di Macomer, anche perché si sta ultimando gli
interventi per renderla completamente agibile».

Ma l'appuntamento èsolo rimandato. «La prefetta ha chiarito che la scuola, davanti a
particolari necessità o quando occorre fare rotazioni, possa essere un
centro che accoglie migranti anche se non in grande numero.

È importante il fatto che sia ripresa il dialogo tra la prefetta e la
sindaca: tutti hanno ben chiaro che nessuna scelta deve essere fatta
sulla testa dei cittadini».
I recenti fatti di cronaca che hanno coinvolti alcuni algerini hanno
riportato sul tavolo anche il tema sicurezza. «Come è stato chiarito
anche dal comitato provinciale per la sicurezza, non esiste alcun
problema di ordine pubblico. Certo, ci sono stati alcuni casi che
hanno creato allarme ma si tratta di episodi limitati». ( mar.co. )


Il premier: «Il Parlamento non è un social network». Oggi al Senato la
prova più dura
Fiducia in un'Aula semivuota
Alla Camera il primo sì a Gentiloni, Lega e M5S non votano

ROMA Sarà «una fotocopia» del governo Renzi, come dice Renato
Brunetta. Eppure ieri l'esecutivo di Paolo Gentiloni, mentre incassava
il sì della Camera, per più di un verso sembrava più una miniatura.
I VOTI Innanzitutto nei consensi ottenuti dall'Emiciclo: 368, vale a
dire 10 in meno rispetto al debutto del suo predecessore a
Montecitorio, contro 105 no.

E poi nella partecipazione all'evento, azzoppata dalla Lega e dal
Movimento 5 Stelle che non hanno partecipato al voto preferendo
abbandonare l'aula. E se ieri a Montecitorio l'addio al dibattito di
parte dell'opposizione ha avuto un sapore simbolico, oggi al Senato il
duello sul filo dei numeri sarà ben più significativo: a
miniaturizzarsi, infatti, è il margine di vantaggio della maggioranza,
che dopo la rottura con i verdiniani di Ala si riduce ad appena 12
voti.

IL DISCORSO Miniaturizzato, infine, lo stesso discorso del primo
ministro: dura appena 18 minuti e incassa giusto un paio di applausi.
Il tono è sommesso, in carattere col personaggio piuttosto low profile
che tutti gli osservatori hanno contrapposto (ma solo sul piano
stilistico) al suo predecessore a Palazzo Chigi. Il guizzo polemico
arriverà nelle repliche e sarà indirizzato tutto o quasi ai
pentastellati, quando il premier segnala la necessità «di farla finita
con questa apparentemente infinita escalation di violenza verbale tra
di noi. Il Parlamento non è un social network».

ESECUTIVO A TERMINE L'agenda, naturalmente, è compatta e dettata dalle
emergenze. D'altronde lo stesso premier sa di non poter indicare la
scadenza naturale della legislatura, nel 2018, come orizzonte della
sua esperienza, e si concede una banalità solo apparente quando
sottolinea che «un governo dura fin quando ha la fiducia del
Parlamento».

GLI IMPEGNI E fino a quando durerà, questa squadra seminuova avrà
poche e inevitabili priorità. «L'intervento nelle zone colpite dal
terremoto - spiega il primo ministro dalle aristocratiche radici
marchigiane - è la prima cosa, siamo ancora in emergenza e dalla
qualità della ricostruzione dipende la qualità del futuro di una parte
rilevante del territorio dell'Italia centrale».
Ci sono gli impegni internazionali, con l'imminente presidenza del G7
e la necessità di riscrivere le regole di Dublino sui migranti ma
anche la tragica partita della Siria, il ruolo che l'Italia verrà
chiamata a svolgere nel Consiglio di sicurezza Onu e infine la
difficile trattativa con l'Europa, l'indispensabile matrigna.
LAVORO Ci sono le banche da mettere in sicurezza, i risparmiatori da
tuttelare e una ripresa economica da incoraggiare. E sempre da
incoraggiare - ma nulla di più, siamo ben lontani dall'interventismo
istituzionale dei Renzi - sarà il dibattito su una nuova legge
elettorale.
Infine «daremo spazio alla priorità delle priorità: lavoro, lavoro,
lavoro. Soprattutto nel mezzogiorno. Dobbiamo porre la questione del
lavoro al centro, a partire dalle zone del mezzogiorno».

L'EREDITÀ Il Pd vota in blocco con Ncd per il suo premier, il
dibattito scorre su binari più di lealtà che di entusiasmo. Quando
Gentiloni richiama, anzi rivendica quanto realizzato da Renzi, suona
più come un omaggio a un'esperienza conclusa (che lo ha visto in
squadra con la delega agli Esteri) che un passaggio di testimone nel
segno rottamatorio dell'Italia che cambia verso. Questa è tutta
un'altra storia: più sottotono, più breve, più scandita dalle
emergenze che dai progetti. Una storia in miniatura.

Pesa l'addio dei 18 verdiniani
A Palazzo Madama senza Ala si balla «Ma per ora ce la fa»

ROMA I numeri in Senato ci sono e - almeno per oggi, col pienone dei
grandi eventi - per la fiducia al governo non ci dovrebbero essere
grosse sorprese nonostante l'addio di Verdini.
Il problema, fanno notare alcuni parlamentari, sarà col voto sui
prossimi provvedimenti. Dal 2013, quando il Pd vinse le elezioni, il
Senato è stato il tallone d'Achille del governo, una maggioranza
risicata e appesa a un filo. Sui 320 senatori l'esecutivo può contare
su 112 Dem (con il presidente Pietro Grasso che non vota), i 28 di
Ncd, i 18 del gruppo per le Autonomie (senza Mario Monti che negherà
la fiducia) e quasi la metà del Misto, dove ci sono i fedeli Sandro
Bondi e Manuela Repetti mentre i tre tosiani di Fare devono ancora
sciogliere la riserva. Al netto dell'assenza dei 18 di Ala, la
maggioranza conterebbe 172 voti. Senza defezioni dovute a malattie,
contrattempi o semplicemente assenze dei ministri, visto che nella
squadra di Gentiloni si contano quattro senatori: Roberta Pinotti,
Anna Finocchiaro, Valeria Fedeli e Marco Minniti.
Ala fa notare che fino a ieri i verdiniani erano un cuscinetto su cui
la maggioranza poteva poggiare quando la minoranza Pd faceva i
capricci, come per le unioni civili. Ora, spiegano, «il governo sarà
ostaggio del volere della minoranza».



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Federico Marini

skype: federico1970ca

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