giovedì 23 agosto 2018

Esistono confini per la satira? Oppure siamo noi desiderosi dei confini, quando la stessa tocca i nostri nervi scoperti? Di Romina Fiore.



Quel Je suis Charlie, che orgogliosamente campeggiava nelle nostre bacheche, lo avevamo scritto nell’incrollabile convinzione che la satira fosse espressione di libertà e che non andasse imbavagliata. Avevamo manifestato, con la matita nella foto del profilo, la nostra vicinanza ai redattori del settimanale satirico esortandoli a non lasciarsi intimidire dall’assalto al giornale e da quei dodici cadaveri sparsi sul campo. Ma ora, dopo la questa vignetta, la matita di partecipazione emotiva si è spuntata.

Perché la satira va bene su tutto, basta che stia lontana da casa nostra. Quindi via libera su Maometto, sui musulmani e anche su Allah, purché non smuova le corde del nostro patriottismo nazional-popolare. Ma, si sa, più si avvicina a noi più diventa scadente e insulsa e offensiva. Eppure la satira, proprio perché tale, mette alla berlina l’intoccabile per definizione.

Esalta i difetti dell’uomo, estremizza gli eventi, schiaffa un’impietosa e dissacrante lente d’ingrandimento su persone e situazioni. Sotto quest’ottica è un meraviglioso vettore di democrazia, raccoglie e reclama l’applicazione del principio di uguaglianza. Ricky Gervais ci ricorda che la finalità della satira è proprio questa: aiuta a smitizzare le sciagure.

È esattamente così che si è evoluto l’umorismo, per farci superare le cose di merda. Se non puoi fare battute sulle cose di merda, non c’è alcun motivo di farle sulle cose belle. A tutti piacciono i palloncini, ma chi cazzo se ne frega?” Dovremmo averlo ormai capito che cose di merda ne accadono anche da noi, e anche molte. Quindi la satira, piaccia o meno, va inflitta con obiettività e senza sconti per nessuno. Nemmeno per gli italiani.

Di Romina Fiore.

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