Le ragioni del SI'
Non è una bellissima legge, quella approvata dal parlamento della Repubblica, rubricata “Testo di legge costituzionale approvato in seconda votazione a maggioranza assoluta, ma inferiore ai due terzi dei membri di ciascuna Camera, recante: «Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione”
Come tutte le leggi è frutto di un compromesso tra diverse opzioni politico programmatiche; e forse in qualche sua parte non è neanche scritta benissimo. Ma non è vero che non si capisce. Il tanto vituperato art. 70, di necessità più lungo del precedente, dato che deve descrivere una serie di procedimenti legislativi che vedono protagonista anche il Senato, nuova camera delle Autonomie, è, ad una lettura attenta, comunque difficile, ma comprensibile (e quanti altri ve ne sono – di complessi - nel testo costituzionale!)
Ma veniamo alla sostanza:
Riduzione del numero dei parlamentari: il Senato elettivo scompare (315 parlamentari in meno!) il nuovo senato sarà costituito da personale politico già eletto, quindi di secondo grado. Dove sta lo scandalo ? (la sinistra, da sempre mono-cameralista, dovrebbe solo plaudire. E invece si sentono piagnistei sulla riduzione della democrazia “!perché non ci danno più la scheda del senato!!! - sembra incredibile. Ma i coerenti democratici e progressisti danno rilievo alla Camera dei deputati (assemblea Nazionale, assemblea del popolo – chiamatela come vi pare); non si strappano le vesti per la fine della elettività diretta del Senato.
Dunque 315 stipendi in meno a carico del bilancio pubblico e delle vostre/nostre tasche. Si poteva abolire del tutto? Certo che si poteva; ma non si è trovato evidentemente l'accordo. Piuttosto che niente, meglio piuttosto. E soprattutto, ora non stiamo votando sull'una o l'altra opzione: o questa proposta, o lo status quo. Sotto il profilo strettamente finanziario si sta proponendo di non inserire nel bilancio dello stato italiano una posta che vale circa 95 milioni di euro all'anno in sole indennità ai senatori. Mi pare più che corretto evitare di continuare a buttarli via e destinare quei (pochi=? Non credo) soldi al risanamento del debito pubblico e/o ad altri fini più importanti.
Il CNEL: un organo costituzionale che ha come compito quello di dare consulenza alle Camere e al Governo in materia economica e del lavoro, esercitando anche l'iniziativa legislativa. Non lo ha praticamente fatto quasi mai: costa circa 10 milioni l'anno in spese di personale e struttura complessiva. Il paese ha bisogno disperatamente di denaro; se dieci milioni possono essere risparmiati, questa è l'occasione. E' in costituzione e par abolirlo occorre la legge costituzionale.
Modifiche al Titolo V – Nel 2001 una legge costituzionale votata dall'allora sola maggioranza di centro sinistra (che oggi – nella sua parte più “di sinistra”– vorrebbe totale e globale condivisione....) ha prodotto la più incasinata ripartizione di competenze tra stato centrale e regioni, portando a un continuo contenzioso costituzionale. Il nuovo art. 117 pone chiarezza, riportando al centro molte competenze (in materia economica, e ambientale) che oggi comportano il blocco di tante opere pubbliche di rilievo e interesse nazionale, stoppate per i tanti veti regionali. Mi pare che per chi contesta anche la poca qualità morale delle regioni italiane (del suo personale politico) sia una cosa buona.
Quanto alla “massima condivisione”, la stessa costituzione ha previsto che le riforme costituzionali possano essere approvate anche con la sola maggioranza qualificata della metà più uno (e non solo di quella più forte dei due terzi). Questo è il nostro caso; e in questo caso la stessa nostra Costituzione prevede che vi sia “l'appellatio ad populum” col referendum confermativo. Il popolo deciderà (tanto per parlare di sovranità, che non si capisce perché venga tirata in ballo per sostenere che questa proposta la comprometterebbe (sic!). Art. 40 comma 2 della proposta di modifica: Non possono essere corrisposti rimborsi o analoghi trasferimenti monetari recanti oneri a carico della finanza pubblica in favore dei gruppi politici presenti nei Consigli regionali.
Questa è una norma importantissima per che continuino a malversare le casse pubbliche i Batman di turno o gli acquirenti di mutande verdi, o i professionisti delle spese pazze – presenti a destra e sinistra. Sia chiaro per tutti che se vince il NO continueranno ad avere i rimborsi. La compromissione della democrazia e la svolta “oligarchica”: Il Prof Zagrebelsky, le cui pagine di diritto costituzionale abbiamo letto in tanti, paventa una riduzione della democrazia (per effetto della elezione indiretta del senato??) e addirittura una possibile svolta oligarchica!
Questa riforma non tocca un articolo della prima parte della nostra bella Costituzione. Non tocca un articolo sui poteri del Presidente del Consiglio (e sarebbe stato il caso di farlo, perché oggi il Primo ministro italiano non può sostituire un ministro del proprio governo – La Markel e Holland invece, si (ma loro sono paesi “autoritari”......). Quindi non c'è alcun rafforzamento dei poteri del premier (purtroppo, dico io). Collegare la questione alla legge elettorale (che non c'entra nulla con la riforma costituzionale) fa parte del racconto distorto dei conservatori del NO. Insomma, in buona sostanza credo che tanta parte dei NO siano frutto di un'abile campagna psicologico- terroristica circa le prospettive “drammatiche” che si aprirebbero in Italia nell'insieme del processo di decisione democratica. Una letterale pletora di menzogne, espressione solo di un forte conservatorismo e di una scarsa, scarsissima disponibilità al cambiamento.
Per l'Italia, se vince il SI si apre una prospettiva di semplificazione e sburocratizzazione. Se vince il NO, si seppellirà il processo di riforma costituzionale per i prossimi 20 anni. Non morirà nessuno, ovviamente; ma il paese perderà in competitività internazionale e capacità di affrontare meglio il futuro. E continueremo a stare indietro.
Bruno Orrù
Le ragioni del NO.
Ho molto riflettuto in questi giorni sulle posizioni di
Giuliano Pisapia sulla riforma costituzionale. E credo che il modo in cui
Giuliano argomenta il suo 'mancato No' al referendum faccia emergere
considerazioni che esulano dalla riforma costituzionale. Quando parla di guelfi
e ghibellini, Pisapia pare fare riferimento in realtà a 'renzismo' e
'anti-renzismo'. Invoca la riduzione dell'intensità del conflitto, ci invita a
costruire un campo di valori comuni con il Pd di Renzi e si mostra così
perspicacemente consapevole che la direzione che il premier ha impresso al suo
partito non è né passeggera né senza conseguenze sugli anni che verranno in
futuro.
Credo che sia giusto rassicurarlo: la sinistra che vogliamo
costruire non dovrà fondarsi sull'anti-renzismo. Sono così tanti gli errori che
abbiam fatto perché accecati dall'anti-berlusconismo, a cominciare dal dare
priorità alla sua cacciata più che alla qualità dei progetti di governo, che
oggi dovremmo essere vaccinati contro questa malattia della politica. Eppure questa rinuncia alla personalizzazione è una scelta
gravida di conseguenze da affrontare, conseguenze che Pisapia pare continuare a
rimuovere. Se la nostra sinistra non è contro Renzi, è all'opposizione perché è
sicuramente contraria alle politiche che Renzi ha realizzato, applicando in
Italia con inedita solerzia, le riforme strutturali richieste dall'attuale
modello europeo e dai quei poteri dell'economia finanziaria che hanno come mantra
il motto neoliberista 'meno Stato, meno tasse, meno democrazia'.
Dall'inizio
della crisi economica che ha scosso l'Occidente e scuote ancora l'Europa, è
stato il Pd - come ci hanno ricordato tutti i suoi dirigenti più volte in
queste settimane - a farsi perno e garanzia della stabilità del paese che,
tradotto dal politichese che asfissia l'attuale dibattito europeo, vuol dire
garante dell'attuazione di politiche che - come si vede quasi ad un
decennio di distanza dai primi segnali di crisi – sono state efficaci nel
compito di stabilizzare il profitto della rendita ma completamente fallimentari
in quello di fermare l'impoverimento drammatico di ampie fasce di popolazione,
la crescita delle diseguaglianze e il deterioramento dei beni comuni. Monti,
Letta, Renzi: in tre passi il Pd è passato dal dare un sostegno ad un governo
tecnico (giustificato almeno dall'emergenza della crisi del debito) ad essere
protagonista assoluto dell'attuazione di quelle riforme in tutti i settori
strategici, dal lavoro, alla scuola, alle opere pubbliche passando per
privatizzazioni e pubblica amministrazione. Aggiungendo un tocco personale
quasi ad ognuna di esse, quello del bonus, ovvero quello di qualche miliardo di
misure non strutturali con cui il governo ha cercato di nascondere i caratteri
più deleteri di quelle strutturali.
Questo è il cuore del problema che abbiamo davanti. Non è di
poco conto, perché ci obbliga ad alzare lo sguardo e rileggere il nostro
passato con quel senso critico che è precondizione per imparare qualcosa dalla
propria storia. Dobbiamo valutare con attenzione: cos'è stato il socialismo
europeo negli ultimi dieci anni, perché le destre xenofobe hanno conquistato
tanto spazio in tutto il continente, perché in altri paesi quella sinistra che
sembrava minoritaria si è scoperta tutto d'un tratto potenzialmente
maggioritaria, perché il campo del progressismo tradizionale è sembrato
completamente inerte e incapace di fronte alla distruzione delle aspettative di
benessere del suo popolo, perché si insiste in una politica estera senza sbocco
anche quando l'Occidente, schiacciato tra guerra e terrorismo, sembra ad un
passo dal baratro?
Pisapia ama ripetere che il mondo è cambiato, e io credo che
non ci sia cosa più vera. Ma a Pescara, alla nostra festa nazionale, per
illustrare questo concetto ha parlato dei comunisti e dei democristiani del
dopoguerra. Credo sia stato un esempio infelice, un po' come se la platea fosse
piena di quei vetero nostalgici a cui nessuno di noi ha francamente mai pensato
di assomigliare. Avrebbe dovuto fare esempi più recenti: anche il mondo del
salto nel futuro con i trattati europei di Ciampi e Prodi non c'è più, anche
quello di D'Alema che prometteva libertà nella flessibilità del lavoro, e
quello di Bassanini che progettava di modernizzare la macchina dello Stato per
renderla più vicina ai cittadini, quello di Berlusconi e del sogno di un
profitto privato che producesse ricchezza diffusa, quello di Bossi con le sue
scuole in dialetto, quello di Bertinotti che si batteva per le 35 ore come in
Francia. Ecco, anche tutto questo irrimediabilmente non c'è più. Anche del
movimento di Genova in realtà non sembra essere restato granché oltre alla
consapevolezza di aver, come Cassandra, visto negli occhi il futuro che stava
arrivando.
Di fronte a noi ora ci sono prevalentemente macerie: alla
politica, ai sogni, ai progetti diversi si sono sostituiti l'ordinaria
amministrazione del presente, le promesse spot prive di visione, la
rottamazione vuota presto rottamata, e con esse la rabbia, la delusione,
l'omologazione nella sfiducia e tanta, troppa, povertà e paura. Siamo sicuri di
poter parlare di centro-sinistra come se tutta questa gigantesca mole di
problemi non esistesse? Siamo sicuri di poter immaginare per il futuro prossimo
un'alleanza per il governo nazionale con un partito che ormai da anni è
costantemente impegnato a nascondere con la propaganda gli effetti che le
proprie scelte hanno sulla vita reale delle persone?
Per questo mi preme sottolineare una preoccupazione: non
vorrei che il richiamo continuo all'unità in nome del comune nemico a destra,
producesse in realtà quell'eterogenesi dei fini per cui il consenso alle forze
della destra estrema e populiste cresce ogni qualvolta il sistema politico si
arrocca a difesa della stabilità del sistema stesso.
Forse è per questo che con Pisapia abbiamo uno sguardo così
diverso sulla riforma costituzionale e il referendum: lui sembra concentrarsi
su velocità, efficenza, capacità di adattamento dei parlamenti nazionali alle
logiche che dominano la competizione dentro il sistema globale. Noi del No a
sinistra invece ci concentriamo su partecipazione, rappresentanza dei
cittadini, equilibrio dei poteri.
Ci concentriamo in sostanza su una concezione che
attribuisce al sistema politico la funzione di rappresentare la società e di
costruirne una diversa. Non tifiamo instabilità o stabilità, ma cerchiamo il
giusto equilibrio che renda possibile per la società condizionare i parlamenti
e per i parlamenti agire efficacemente per cambiare la società secondo i bisogni
che essa esprime. Stiamo suonando un campanello di allarme, dopo che siamo
stati inascoltati quando al tempo dell'approvazione dell'Italicum chiedemmo a
Renzi di considerare i rischi a cui la sua legge elettorale esponeva il paese.
Voteremo No, non per conservatorismo, ma perché le trasformazioni sociali ed
economiche dell'ultimo decennio sono state così dirompenti e così poco
governate che procedere all'ennesima verticalizzazione istituzionale può
costruire, fuori dalla rappresentanza istituzionale, fuori dalla politica delle
forze organizzate, un'accumulazione di rabbia, esclusione e risentimento
potenzialmente esplosiva.
Abbiamo bisogno di una democrazia inclusiva, che è cosa ben
diversa dalla democrazia decidente di Renzi. Non è un vezzo antimoderno, perché
è proprio nella storia recente d'Europa che troviamo le ragioni che ci
suggeriscono quella prudenza e saggezza che Renzi non ha avuto: dalla Brexit
alla crescita esponenziale dell'astensionismo, alle spericolate avventure di
movimenti che raccolgono il nostro popolo senza avere un porto dove portarlo.
La riforma Renzi-Boschi può alimentare, invece di asciugare, le pozze a cui
attingono quelle forze di cui Pisapia è giustamente preoccupato.
Nasce da qui, a mio parere, la necessità di insistere non
solo sul NO, ma anche su un modello di legge elettorale di stampo
proporzionale. Una sinistra che prenda sul serio le cose che dice, dovrebbe
rifletterci con maggior attenzione. Non è un tema politicista, ma è una delle
condizioni che rendono possibile un cambiamento di schema e quindi scenari
diversi in cui provare a perseguire le politiche che ci stanno a cuore. Di
fronte a tanta incertezza, qualcosa di certo però c'è e non dobbiamo
scordarcelo: con la vittoria del Si non ci sarà alcuna dittatura, ma non ci
sarà nemmeno alcun cambiamento di segno progressista all'orizzonte. Ci vediamo
in piazza il primo ottobre a Firenze: ci aspetta una lunga battaglia di idee,
cominciamola con il piede nella piazza giusta.
Elisabetta Piccolotti.
Esecutivo nazionale Sinistra Italiama.
Ho molto riflettuto in questi giorni sulle posizioni di
Giuliano Pisapia sulla riforma costituzionale. E credo che il modo in cui
Giuliano argomenta il suo 'mancato No' al referendum faccia emergere
considerazioni che esulano dalla riforma costituzionale. Quando parla di guelfi
e ghibellini, Pisapia pare fare riferimento in realtà a 'renzismo' e
'anti-renzismo'. Invoca la riduzione dell'intensità del conflitto, ci invita a
costruire un campo di valori comuni con il Pd di Renzi e si mostra così
perspicacemente consapevole che la direzione che il premier ha impresso al suo
partito non è né passeggera né senza conseguenze sugli anni che verranno in
futuro.
Credo che sia giusto rassicurarlo: la sinistra che vogliamo
costruire non dovrà fondarsi sull'anti-renzismo. Sono così tanti gli errori che
abbiam fatto perché accecati dall'anti-berlusconismo, a cominciare dal dare
priorità alla sua cacciata più che alla qualità dei progetti di governo, che
oggi dovremmo essere vaccinati contro questa malattia della politica. Eppure questa rinuncia alla personalizzazione è una scelta
gravida di conseguenze da affrontare, conseguenze che Pisapia pare continuare a
rimuovere. Se la nostra sinistra non è contro Renzi, è all'opposizione perché è
sicuramente contraria alle politiche che Renzi ha realizzato, applicando in
Italia con inedita solerzia, le riforme strutturali richieste dall'attuale
modello europeo e dai quei poteri dell'economia finanziaria che hanno come mantra
il motto neoliberista 'meno Stato, meno tasse, meno democrazia'.
Dall'inizio
della crisi economica che ha scosso l'Occidente e scuote ancora l'Europa, è
stato il Pd - come ci hanno ricordato tutti i suoi dirigenti più volte in
queste settimane - a farsi perno e garanzia della stabilità del paese che,
tradotto dal politichese che asfissia l'attuale dibattito europeo, vuol dire
garante dell'attuazione di politiche che - come si vede quasi ad un
decennio di distanza dai primi segnali di crisi – sono state efficaci nel
compito di stabilizzare il profitto della rendita ma completamente fallimentari
in quello di fermare l'impoverimento drammatico di ampie fasce di popolazione,
la crescita delle diseguaglianze e il deterioramento dei beni comuni. Monti,
Letta, Renzi: in tre passi il Pd è passato dal dare un sostegno ad un governo
tecnico (giustificato almeno dall'emergenza della crisi del debito) ad essere
protagonista assoluto dell'attuazione di quelle riforme in tutti i settori
strategici, dal lavoro, alla scuola, alle opere pubbliche passando per
privatizzazioni e pubblica amministrazione. Aggiungendo un tocco personale
quasi ad ognuna di esse, quello del bonus, ovvero quello di qualche miliardo di
misure non strutturali con cui il governo ha cercato di nascondere i caratteri
più deleteri di quelle strutturali.
Questo è il cuore del problema che abbiamo davanti. Non è di
poco conto, perché ci obbliga ad alzare lo sguardo e rileggere il nostro
passato con quel senso critico che è precondizione per imparare qualcosa dalla
propria storia. Dobbiamo valutare con attenzione: cos'è stato il socialismo
europeo negli ultimi dieci anni, perché le destre xenofobe hanno conquistato
tanto spazio in tutto il continente, perché in altri paesi quella sinistra che
sembrava minoritaria si è scoperta tutto d'un tratto potenzialmente
maggioritaria, perché il campo del progressismo tradizionale è sembrato
completamente inerte e incapace di fronte alla distruzione delle aspettative di
benessere del suo popolo, perché si insiste in una politica estera senza sbocco
anche quando l'Occidente, schiacciato tra guerra e terrorismo, sembra ad un
passo dal baratro?
Pisapia ama ripetere che il mondo è cambiato, e io credo che
non ci sia cosa più vera. Ma a Pescara, alla nostra festa nazionale, per
illustrare questo concetto ha parlato dei comunisti e dei democristiani del
dopoguerra. Credo sia stato un esempio infelice, un po' come se la platea fosse
piena di quei vetero nostalgici a cui nessuno di noi ha francamente mai pensato
di assomigliare. Avrebbe dovuto fare esempi più recenti: anche il mondo del
salto nel futuro con i trattati europei di Ciampi e Prodi non c'è più, anche
quello di D'Alema che prometteva libertà nella flessibilità del lavoro, e
quello di Bassanini che progettava di modernizzare la macchina dello Stato per
renderla più vicina ai cittadini, quello di Berlusconi e del sogno di un
profitto privato che producesse ricchezza diffusa, quello di Bossi con le sue
scuole in dialetto, quello di Bertinotti che si batteva per le 35 ore come in
Francia. Ecco, anche tutto questo irrimediabilmente non c'è più. Anche del
movimento di Genova in realtà non sembra essere restato granché oltre alla
consapevolezza di aver, come Cassandra, visto negli occhi il futuro che stava
arrivando.
Di fronte a noi ora ci sono prevalentemente macerie: alla
politica, ai sogni, ai progetti diversi si sono sostituiti l'ordinaria
amministrazione del presente, le promesse spot prive di visione, la
rottamazione vuota presto rottamata, e con esse la rabbia, la delusione,
l'omologazione nella sfiducia e tanta, troppa, povertà e paura. Siamo sicuri di
poter parlare di centro-sinistra come se tutta questa gigantesca mole di
problemi non esistesse? Siamo sicuri di poter immaginare per il futuro prossimo
un'alleanza per il governo nazionale con un partito che ormai da anni è
costantemente impegnato a nascondere con la propaganda gli effetti che le
proprie scelte hanno sulla vita reale delle persone?
Per questo mi preme sottolineare una preoccupazione: non
vorrei che il richiamo continuo all'unità in nome del comune nemico a destra,
producesse in realtà quell'eterogenesi dei fini per cui il consenso alle forze
della destra estrema e populiste cresce ogni qualvolta il sistema politico si
arrocca a difesa della stabilità del sistema stesso.
Forse è per questo che con Pisapia abbiamo uno sguardo così
diverso sulla riforma costituzionale e il referendum: lui sembra concentrarsi
su velocità, efficenza, capacità di adattamento dei parlamenti nazionali alle
logiche che dominano la competizione dentro il sistema globale. Noi del No a
sinistra invece ci concentriamo su partecipazione, rappresentanza dei
cittadini, equilibrio dei poteri.
Ci concentriamo in sostanza su una concezione che
attribuisce al sistema politico la funzione di rappresentare la società e di
costruirne una diversa. Non tifiamo instabilità o stabilità, ma cerchiamo il
giusto equilibrio che renda possibile per la società condizionare i parlamenti
e per i parlamenti agire efficacemente per cambiare la società secondo i bisogni
che essa esprime. Stiamo suonando un campanello di allarme, dopo che siamo
stati inascoltati quando al tempo dell'approvazione dell'Italicum chiedemmo a
Renzi di considerare i rischi a cui la sua legge elettorale esponeva il paese.
Voteremo No, non per conservatorismo, ma perché le trasformazioni sociali ed
economiche dell'ultimo decennio sono state così dirompenti e così poco
governate che procedere all'ennesima verticalizzazione istituzionale può
costruire, fuori dalla rappresentanza istituzionale, fuori dalla politica delle
forze organizzate, un'accumulazione di rabbia, esclusione e risentimento
potenzialmente esplosiva.
Abbiamo bisogno di una democrazia inclusiva, che è cosa ben
diversa dalla democrazia decidente di Renzi. Non è un vezzo antimoderno, perché
è proprio nella storia recente d'Europa che troviamo le ragioni che ci
suggeriscono quella prudenza e saggezza che Renzi non ha avuto: dalla Brexit
alla crescita esponenziale dell'astensionismo, alle spericolate avventure di
movimenti che raccolgono il nostro popolo senza avere un porto dove portarlo.
La riforma Renzi-Boschi può alimentare, invece di asciugare, le pozze a cui
attingono quelle forze di cui Pisapia è giustamente preoccupato.
Nasce da qui, a mio parere, la necessità di insistere non
solo sul NO, ma anche su un modello di legge elettorale di stampo
proporzionale. Una sinistra che prenda sul serio le cose che dice, dovrebbe
rifletterci con maggior attenzione. Non è un tema politicista, ma è una delle
condizioni che rendono possibile un cambiamento di schema e quindi scenari
diversi in cui provare a perseguire le politiche che ci stanno a cuore. Di
fronte a tanta incertezza, qualcosa di certo però c'è e non dobbiamo
scordarcelo: con la vittoria del Si non ci sarà alcuna dittatura, ma non ci
sarà nemmeno alcun cambiamento di segno progressista all'orizzonte. Ci vediamo
in piazza il primo ottobre a Firenze: ci aspetta una lunga battaglia di idee,
cominciamola con il piede nella piazza giusta.
Elisabetta Piccolotti.
Esecutivo nazionale Sinistra Italiama.
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